Tratto da Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico. Con un nuovo saggio introduttivo, Queriniana, Brescia 200715, Excursus - Strutture dell'essere-cristiano, pp. 235-242
1.
Il singolo e il tutto
Per
noi uomini di oggi lo scandalo fondamentale dell’essere-cristiano è rappresentato
innanzitutto dall’esteriorità in cui l’esperienza religiosa sembra finita. Ci scandalizza il fatto che Dio debba esser comunicato
mediante apparati esteriori: tramite la chiesa, i sacramenti, il
dogma, o anche solo tramite la predicazione (kḗrygma), dietro la quale ci si ripara
volentieri per attenuare lo scandalo, ma che resta egualmente qualcosa di
esterno. Di fronte a tutto ciò, ci si
chiede: Dio abita proprio nelle istituzioni, negli eventi o nelle parole?
L’Eterno non tocca forse ciascuno di noi interiormente?
Orbene, a questo interrogativo bisogna rispondere subito e con semplicità in maniera affermativa e aggiungere: se esistesse soltanto [235] Dio e una somma di singoli, il cristianesimo non sarebbe necessario. Dio può e potrebbe provvedere alla salvezza del singolo in quanto singolo direttamente e in maniera immediata, come di fatto avviene in continuazione. Egli non ha bisogno di alcuna mediazione per entrare nell’anima del singolo, al quale egli è più intimo di quanto il singolo sia a se stesso; nulla può essere più vicino all’uomo e penetrare più in profondità se non Lui, che tocca questa creatura nel punto più interiore della sua interiorità. Per la salvezza del singolo semplicemente non ci sarebbe stato bisogno né di una chiesa, né di una storia della salvezza, né di una incarnazione e passione di Dio nel mondo. Ma proprio a questo punto va aggiunta l’affermazione successiva: la fede cristiana non proviene dal singolo atomizzato, ma scaturisce dalla consapevolezza che il singolo semplicemente non esiste, che l’uomo, piuttosto, è tale solo nella connessione col tutto: inserito nell’umanità, nella storia, nel cosmo, come a lui, in quanto “spirito in un corpo”, si addice ed è essenziale.
Orbene, a questo interrogativo bisogna rispondere subito e con semplicità in maniera affermativa e aggiungere: se esistesse soltanto [235] Dio e una somma di singoli, il cristianesimo non sarebbe necessario. Dio può e potrebbe provvedere alla salvezza del singolo in quanto singolo direttamente e in maniera immediata, come di fatto avviene in continuazione. Egli non ha bisogno di alcuna mediazione per entrare nell’anima del singolo, al quale egli è più intimo di quanto il singolo sia a se stesso; nulla può essere più vicino all’uomo e penetrare più in profondità se non Lui, che tocca questa creatura nel punto più interiore della sua interiorità. Per la salvezza del singolo semplicemente non ci sarebbe stato bisogno né di una chiesa, né di una storia della salvezza, né di una incarnazione e passione di Dio nel mondo. Ma proprio a questo punto va aggiunta l’affermazione successiva: la fede cristiana non proviene dal singolo atomizzato, ma scaturisce dalla consapevolezza che il singolo semplicemente non esiste, che l’uomo, piuttosto, è tale solo nella connessione col tutto: inserito nell’umanità, nella storia, nel cosmo, come a lui, in quanto “spirito in un corpo”, si addice ed è essenziale.
Il
principio “corpo” e “corporeità”, sotto il quale l’uomo sta, significa due
cose: da un lato, il corpo separa gli uomini uno dall’altro, rendendoli
impenetrabili gli uni per gli altri. Il corpo, in quanto figura estesa nello
spazio e delimitante, rende impossibile che uno sia totalmente nell’altro; esso
traccia una linea divisoria, che segna una distanza e un limite, ci allontana
gli uni dagli altri ed è in questo modo un principio dissociativo. Al tempo stesso, però, l’essere nella
corporeità include necessariamente anche la storia e la vita comunitaria,
giacché, se il puro spirito può essere pensato come rigorosamente a sé stante,
la corporeità attesta il derivare da altri: gli uomini vivono l’uno dell’altro,
in un senso quanto mai reale e al contempo pluristratificato. Infatti, se l’essere
l’uno dall’altro è inteso in primo luogo in senso fisico (e precisamente dalla
procreazione sino ai molteplici intrecci del reciproco prendersi cura), per
colui che è spirito soltanto nel corpo e in quanto corpo, ciò significa che anche
lo spirito - semplicemente l’unico uomo, tutto l’uomo – è [236] profondamente
segnato dalla sua appartenenza al tutto che è l’umanità – l’unico “Adamo”.
L’uomo appare quindi come quell’essere che può essere solo derivando
da un altro.
Oppure, con una frase del grande teologo di Tubinga, Möhler: «L’uomo, in quanto essere totalmente in relazione,
non diviene consapevole di sé tramite se stesso, quantunque non lo possa
divenire prescindendo da se stesso» [nota 36]. La stessa cosa, in maniera
ancora più acuta, ha espresso un contemporaneo di Möhler, il filosofo Franz von
Baader, di Monaco, il quale afferma che è un controsenso «tanto il volere
dedurre la conoscenza di Dio e la conoscenza di tutte le altre intelligenze e non-intelligenze
dalla conoscenza di sé (dall’autocoscienza), quanto il volere far derivare ogni
amore dall’amore di se stessi» [nota 37].
Qui viene energicamente rifiutato l’approccio
intellettuale di Descartes, la cui fondazione della filosofia nell’autocoscienza
(«Cogito, ergo sum»: penso, quindi
sono) ha segnato in maniera determinante il destino dello spirito moderno sino
alle più recenti forme della filosofia trascendentale. Come l’amore di se stessi non è la forma
originaria dell’amore, bensì tutt’al più una sua forma derivata, e come si può
sperimentare l’amore autentico unicamente intendendolo come relazione, ossia a
partire da un altro, così anche la conoscenza
umana è realtà unicamente in quanto essere-conosciuti,
nell’essere-portati a conoscenza, e quindi nuovamente ‘a partire da un altro’.
L’uomo reale non viene colto se mi limito a scandagliare la
solitudine dell’‘io’, il solo campo dell’autoconoscenza; così facendo, infatti,
escludo a priori il punto di partenza
del suo poter-prendere-coscienza-di-[237]sé e perciò ciò che gli è proprio. Ecco perché
Baader ha coscientemente e certo a buon diritto rovesciato il cartesiano «Cogito, ergo sum», trasformandolo in un «Cogitor, ergo sum»: non «Io
penso, quindi sono», bensì «Io sono pensato, quindi sono»; solo a partire dall’essere-conosciuto
l’uomo può concepire il suo conoscere e se stesso.
Facciamo un passo innanzi: essere uomini è
essere-con in tutte le dimensioni, non solo nell’attualità del presente, ma in
modo che in ciascun uomo siano presenti pure il passato e il futuro dell’umanità,
la quale quanto più le si presta attenzione tanto più appare realmente come un
unico “Adamo”. Non possiamo entrare qui in dettagli. Devono bastare
alcuni brevi accenni. È sufficiente
prendere coscienza che la nostra vita spirituale dipende interamente dal
linguaggio, soggiungendo poi che il linguaggio non è di oggi: esso viene da
lontano, l’intera storia vi ha tessuto intorno e attraverso essa entra in
noi come ineliminabile premessa del nostro presente, anzi, come una sua
componente essenziale. E viceversa: l’uomo
è l’essere che vive proiettato verso il futuro, che nel prendersi cura si
progetta continuamente oltre il momento presente e non potrebbe più esistere se
si trovasse improvvisamente privo di futuro [nota 38]. Dobbiamo quindi dire che
il semplice individuo, la monade-uomo
del Rinascimento, il puro essere del «cogito-ergo-sum»
non esiste. L’uomo può essere tale soltanto in quel complesso intreccio di
storia, che [238] giunge al singolo
attraverso il linguaggio e la comunicazione sociale; il singolo, a sua
volta, realizza la sua esistenza secondo quel modello collettivo nel quale si
trova già previamente inserito e che costituisce lo spazio della sua
auto-realizzazione.
Non è affatto vero che ogni uomo si progetti totalmente da capo partendo
dal grado zero della sua libertà, come si riteneva nell’idealismo tedesco. Egli
non è un essere che ricomincia sempre dal punto zero; può invece sviluppare la
sua peculiarità e novità unicamente in connessione con quanto è a lui
preesistente, con la totalità della realtà umana che gli sta attorno, che lo
segna e gli dà forma.
Con ciò torniamo ora alla questione
iniziale. Possiamo adesso dire che la chiesa e l’essere cristiani hanno a che fare proprio con l’uomo
così compreso. Perderebbero la loro funzione, qualora esistesse solo la
monade-uomo, l’essere del «Cogito, ergo sum».
Si riferiscono all’uomo che è essere-con ed esiste soltanto negli intrecci
collettivi che scaturiscono dal principio della corporeità.
Chiesa e cristianesimo esistono
principalmente per la storia, a causa dei nessi collettivi che segnano l’uomo;
e vanno compresi su questo piano. Il loro senso sta nel servizio offerto alla
storia in quanto tale, nell’aprire o nel trasformare la gabbia collettiva che
forma il luogo dell’esistenza umana. Stando alla descrizione della lettera agli Efesini, l’opera salvifica di
Cristo consiste proprio nel mettere in ginocchio le potenze e le dominazioni,
nelle quali Origene, commentando e ampliando questo testo, ha visto le potenze
collettive che incatenano l’uomo: il potere dell’ambiente, della tradizione
nazionale; quel ‘si’ impersonale che opprime e distrugge l’uomo [nota 39].
Categorie come peccato [239] ereditario,
risurrezione della carne, giudizio universale ecc., si possono intendere
unicamente a partire da qui, perché il luogo del peccato ereditario va individuato
proprio in questo reticolato collettivo che preesiste come dato spirituale all’esistenza
del singolo, non in qualche eredità biologica che si trasmette fra individui
del resto completamente separati gli uni dagli altri.
Parlare
di esso vuole appunto dire che nessun uomo può più cominciare dal punto zero,
da uno status integritatis (=
completamente non toccato dalla storia). Nessuno si trova più in quella situazione
iniziale intatta, in cui non doveva far altro che realizzarsi liberamente e
provvedere al suo bene; ognuno vive invece in un intreccio che è parte della
sua stessa esistenza.
Il giudizio universale, a sua volta,
rappresenta la risposta a questi intrecci collettivi.
La risurrezione poi esprime l’idea che l’immortalità
dell’uomo può consistere ed essere pensata solo nell’essere gli uni con gli
altri, nell’uomo in quanto essere che vive con altri, come dovremo approfondire
più adeguatamente in seguito.
Infine, anche il concetto di redenzione, come già
abbiamo detto, ha il suo senso unicamente su questo piano, perché non si riferisce
a un destino monadico e isolato del singolo.
Se, dunque, il piano della realtà del
cristianesimo va ricercato qui, in un ambito che, in mancanza di un termine
migliore, possiamo sinteticamente indicare come piano della storicità, possiamo
senz’altro anche esplicitamente affermare:
essere
cristiani, secondo la sua prima finalità, non è un carisma individuale, bensì
sociale. Non si è cristiani perché soltanto i cristiani pervengono alla
salvezza, ma si è cristiani perché la diaconia cristiana ha senso ed è necessaria
per la storia.
A questo punto, però, c’è da fare un altro passo in avanti, quanto mai
decisivo, il quale a tutta prima sembrerebbe segnare addirittura un’inversione
di rotta nella direzione opposta, mentre in realtà non è che la logica
conseguenza delle considerazioni fatte sinora. Se, infatti, si è cristiani per partecipare a una
diaconia per il tutto, ciò significa al contempo che il cristia[240]nesimo, proprio a
causa di questo rapporto col tutto, vive a partire dal singolo e per il singolo,
perché la trasformazione della storia, l’abbattimento della dittatura dell’ambiente
possono avvenire di volta in volta, unicamente a partire dal singolo.
A mio avviso, su questo si fonda ciò che
continua a essere radicalmente incomprensibile per le altre religioni del mondo
e per gli uomini d’oggi, il fatto che nel
cristianesimo, in definitiva, tutto
dipende da un singolo, dall’uomo Gesù
di Nazaret, che l’ambiente – vale a dire l’opinione pubblica – ha crocifisso e
che con la sua croce ha spezzato proprio il potere del ‘sì’ impersonale, il potere
dell’anonimità, che tiene prigioniero l’uomo. Contro tale potere sta
ora il nome di questo singolo: Gesù Cristo, che chiama l’uomo a seguirlo, ossia
a prendere la croce come lui, a vincere da crocifisso il mondo e a contribuire
al rinnovamento della storia. Appunto perché il cristianesimo riguarda la
storia nella sua totalità, il suo appello è radicalmente rivolto al singolo;
proprio per questo motivo esso dipende, nella sua totalità, da quel singolo e unico in cui è avvenuta l’apertura,
con la caduta delle potenze e delle dominazioni.
Detto ancora una volta in altre
parole: siccome il cristianesimo è riferito al tutto e può essere compreso
soltanto a partire dalla comunità e per essa, siccome esso non è salvezza del
singolo isolato, bensì servizio per il tutto, al quale il singolo non può né
deve sfuggire, appunto per questo il cristianesimo conosce, in tutta la sua
radicalità, un principio del ‘singolo’.
L’inaudito scandalo che un
singolo, un unico – Gesù Cristo –, venga creduto quale salvezza del mondo,
trova qui la base della sua
intrinseca necessità. Il singolo è la salvezza del tutto, e il tutto riceve la
sua salvezza unicamente dal singolo, il quale è realmente la salvezza e proprio in questo cessa di essere solo per
sé.
Io penso che da qui risulti comprensibile
anche il fatto che nelle altre religioni non c’è un tale ricorso al singolo. L’induismo
non cerca in definitiva il tutto, bensì il singolo che si salva sfuggendo al
mondo, la ruota di Maja. E proprio perché, secondo la sua più profonda
intenzione, non [241] tende al tutto, ma vuole sottrarre alla rovina unicamente
il singolo, esso non può riconoscere alcun altro singolo come definitivamente
importante per me e determinante per la mia salvezza. La sua svalutazione del
tutto finisce per trasformarsi in una svalutazione anche del singolo, venendo a
mancare la categoria del ‘per’ [nota 40].
Riassumendo, come risultato
delle riflessioni sin qui fatte possiamo constatare che il cristianesimo fa
riferimento al principio ‘corporeita’ (storicità), va pensato sul piano del
tutto e unicamente su questo piano ha un senso; ma appunto per questo pone e
deve porre un principio del “singolo”, che rappresenta il suo scandalo, e
tuttavia qui si manifesta in tutta la sua intrinseca necessità e
ragionevolezza.
[nota 36] Così ci
presenta in maniera riassuntiva le idee sviluppate da Möhler nella Theologische Quartalschrift (1830) 582s.,
lo studioso J. R. Geiselmann, La Sacra Scrittura e la Tradizione,
Morcelliana, Brescia 1974, 77. [237]
[nota 37] Sempre
citando da Geiselmann, La Sacra Scrittura e la Tradizione,
cit., 76; F. von Baader, Vorlesungen über spekulative Dogmatik [Lezioni di dogmatica speculativa], 1830,
7a Lez., in Werke VIII,
231; cfr. Möhler, Theologische
Quartalschrift, cit. [237]
[nota 38] Cfr. a
questo proposito l’osservazione fatta da E. Mounier in L’Esprit (gennaio 1947), che racconta il seguente episodio. Un
annunciatore radiofonico era riuscito sin troppo bene a diffondere la notizia
puramente fantastica della catastrofica fine del mondo. Il colmo del
controsenso fu questo: alcune persone si tolsero la vita per non morire. Ora,
questo riflesso palesemente insensato dimostra che noi viviamo assai più del
futuro che non dello stesso presente. Un uomo repentinamente privato del futuro
è un uomo che può già dirsi derubato della vita stessa. Per quanto concerne «l’essere
dell’Esserci in quanto cura», cfr. M.
Heidegger, Essere e tempo,
UTET, Torino 19862, 299-307. [238]
[nota 39] Cfr. J. Ratzinger, Menschheit und Staatenbau in der Sicht der frühen Kirch [Umanità e strutturazione dello Stato nella
mente della chiesa primitiva, in Studium
generale 14 (1961) 664-682, specie 666-674; H.
Schlier, Principati e potestà nel
Nuovo Testamento, Morcelliana, Brescia 1967, 29s. Circa il ‘si’ impersonale,
cfr. Heidegger, Essere e tempo, cit., 214-220. [239]
[nota 40] Cfr. in proposito l’istruttiva inchiesta pubblicata da J. Neuner, Religion und Riten. Die Opferlehre der Bhagavadgita [Religioni e riti. La dottrina sacrificale della Bhagavadgita, in Zeitschrift für Katholische Theologie 73 (1951) 170-213. [242]
[nota 40] Cfr. in proposito l’istruttiva inchiesta pubblicata da J. Neuner, Religion und Riten. Die Opferlehre der Bhagavadgita [Religioni e riti. La dottrina sacrificale della Bhagavadgita, in Zeitschrift für Katholische Theologie 73 (1951) 170-213. [242]
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