2.
Il principio del ‘per’
Siccome
la fede cristiana esige il singolo, ma lo vuole per il tutto e non per se
stesso, nella
preposizione “per” si esprime la vera e propria legge fondamentale dell’esistenza
cristiana: è la logica conseguenza che scaturisce necessariamente da
quanto detto finora.
Ecco perché nel principale
sacramento cristiano, che costituisce il centro della liturgia cristiana, l’esistenza
di Gesù Cristo viene presentata come esistenza «per i molti» - «per voi» [nota 41],
come esistenza aperta, che rende possibile e crea, attraverso la comunicazione
con lui, la comunicazione vicendevole fra tutti. Ecco perché, come già abbiamo visto, l’esistenza
di Cristo si realizza e trova compimento come esistenza esemplare nell’apertura
della croce. Ecco perché egli, preannunciando e spiegando la sua morte, può
affermare: «Va[242]do, ma torno a voi» (Gv
14,28): mentre mi allontano da voi la parete della mia esistenza, che ora mi
limita, viene demolita, sicché questo avvenimento costituisce il mio reale
venire, in cui realizzo ciò che veramente io sono, vale a dire colui che fa
entrare tutti nell’unità del suo nuovo essere, colui che non è più limite,
bensì unità.
I
Padri della chiesa hanno interpretato in questo senso le braccia
spalancate del Signore sulla croce.
Scorgono
in esse in primo luogo la forma originaria del gesto cristiano di preghiera, l’atteggiamento
dell’orante, così come lo incontriamo, in modo toccante, nelle raffigurazioni
delle catacombe. Le braccia del Crocifisso lo mostrano come l’orante, ma nello
stesso tempo danno alla preghiera una nuova dimensione, che costituisce lo specifico
della glorificazione cristiana di Dio: quelle braccia spalancate
sono espressione di preghiera anche e soprattutto in quanto esprimono la
completa dedizione agli uomini, sono il gesto dell’abbraccio, della piena e
indivisa fraternità.
A
partire dalla croce, la teologia dei Padri ha visto rappresentata simbolicamente
nel gesto della preghiera cristiana l’unità di preghiera e fraternità, l’inseparabilità del servizio agli uomini e
della glorificazione di Dio.
Essere cristiani significa essenzialmente il passaggio
dall’essere per se stessi all’essere gli uni per gli altri. In tal modo si chiarisce anche ciò che
in verità s’intende con il concetto di elezione (“predestinazione”), che spesso
ci risulta così estraneo. Essa non indica una preferenza che lascia che il
singolo viva per se stesso, separandolo dagli altri, bensì l’inserirsi in
quella missione comune di cui si parlava poc’anzi.
Di
conseguenza la decisione cristiana fondamentale, l’accettazione
dell’essere cristiani, significa il distacco dall’essere centrati sull’ “io” e
l’aggancio all’esistenza di Gesù Cristo, che è rivolta al tutto. La
stessa cosa intende la parola della
sequela della croce, che non indica affatto una devozione privata, ma esprime l’idea
fondamentale che l’uomo, lasciandosi alle spalle l’isolamento e la tranquillità
del proprio [243] “io”, esca da se
stesso, per seguire, in questo coinvolgersi con gli altri, il Crocifisso ed
esistere per gli altri.
Le
grandi immagini della storia salvifica, che rappresentano al contempo le grandi
figure fondamentali del culto cristiano, sono senz’altro forme espressive di
questo principio del “per”.
Pensiamo,
per esempio, all’immagine
dell’esodo (“uscita”), che da Abramo in poi e ben oltre il classico
esodo dall’Egitto, narratoci dalla storia sacra, rimane
il pensiero fondamentale all’insegna del quale si svolge l’esistenza del popolo
di Dio e di chi appartiene a esso: ognuno è chiamato al continuo esodo del
superamento di sé.
La
medesima idea riecheggia nell’immagine
della pasqua, nella quale la fede cristiana ha formulato il collegamento tra il
mistero della croce e della risurrezione di Gesù e l’idea dell’esodo dell’antica
Alleanza.
L’evangelista Giovanni ha
reso di nuovo il tutto con un’immagine mutuata dalla natura. Con essa l’orizzonte si dilata, oltre le
dimensioni antropologica e storico-salvifica, alla dimensione cosmica: ciò che qui viene chiamato una struttura
portante della vita cristiana rappresenta in fondo già il
segno distintivo della creazione stessa.
«In
verità vi dico: se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane
solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Già a livello
cosmico vige la legge che solo attraverso la morte, attraverso la perdita di se
stessi, scaturisce la vita. Ciò che così si
annuncia nella creazione, si attua in pieno nell’uomo e, in definitiva, in quell’uomo
esemplare che è Gesù Cristo: nell’accettare la sorte del granello di frumento,
nel passare attraverso l’essere sacrificato, nel lasciarsi squarciare e nel
perdersi, egli inaugura la vera vita.
Guardando
alle esperienze della storia delle religioni, che su questo punto collimano
strettamente con la testimonianza della Bibbia, si potrebbe anche affermare: il mondo vive di sacrificio. Quei
grandi miti che esprimono la conoscenza secondo la quale il cosmo sarebbe stato
costruito sulla base di un sacrificio primordiale e continuerebbe a vivere
soltanto grazie all’auto-sacrificio, sareb[244]be stabilito
sul sacrificio [nota 42],
ricevono qui la loro verità e validità.
Per risultare fruttuosi,
tutti i superamenti di sé hanno bisogno del ricevere da parte degli altri e, in
definitiva, da parte dell’Altro che è
il veramente Altro dell’intera umanità e contemporaneamente totalmente a essa
unita: l’uomo-Dio Gesù Cristo.
Attraverso queste immagini
mitiche appare chiaro il
principio cristiano dell’esodo: «Chi ama la sua vita la perde e chi odia
la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna» (Gv
12,25 ; cfr. il testo parallelo di Mc
8,35).
Concludendo,
bisogna anche dire che tutti gli sforzi
di superamento di sé, intrapresi dall’uomo, non possono mai bastare.
Chi vuol solo dare e non è pronto a ricevere, chi vuol
essere solo per gli altri, senza riconoscere che anch’egli, a sua volta, vive
del dono gratuito e inesigibile del “per” degli altri, misconosce il tratto
fondamentale dell’essere uomini, finendo così per distruggere anche il vero
senso dell’essere per gli altri.
[nota 41] Così si legge nel Canone Romano della Messa, che segue il
rito d’istituzione dell’Eucaristia riportato in Mc 14,24.
[nota 42] Cfr. il mito Purusa della religione vedica; cfr. in proposito il saggio di C. Régamey, in E Köning, Cristo e le religioni del mondo. Storia comparata delle religioni III, Marietti, Torino 1962, 87ss; dello stesso autore, ancora in E Köning, Religionswissenschaftliches Wörterbuch, Freiburg 1956, 470ss. [trad. it., Dizionario delle religioni, Herder, Roma 1960]; J. Gonda, Le religioni dell’India. Veda e antico Induismo, Jaca Book, Milano 1981, 188ss. Il testo principale a questo riguardo: Rigveda 10, 90.
[nota 42] Cfr. il mito Purusa della religione vedica; cfr. in proposito il saggio di C. Régamey, in E Köning, Cristo e le religioni del mondo. Storia comparata delle religioni III, Marietti, Torino 1962, 87ss; dello stesso autore, ancora in E Köning, Religionswissenschaftliches Wörterbuch, Freiburg 1956, 470ss. [trad. it., Dizionario delle religioni, Herder, Roma 1960]; J. Gonda, Le religioni dell’India. Veda e antico Induismo, Jaca Book, Milano 1981, 188ss. Il testo principale a questo riguardo: Rigveda 10, 90.
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