8. L’intelletto, lo spirito e l'amore.
Una meditazione sulla Pentecoste
Vale davvero la pena, nelle solennità, fermarsi un po’ sul loro
e riflettere così sul significato della propria esistenza, sulle sue
irrequietezze, speranze ed angosce, o si tratta unicamente di un’abitudine
borghese, del desiderio di un po’ di fronzoli, di una devota trasfigurazione
della vita, rifacendosi a tempi passati che si dovrebbero definitivamente
abbandonare?
Senza dubbio, per molti la Pentecoste non è altro che il nome di un
lungo fine settimana. Dal meccanismo dei giorni feriali si
passa a quello del tempo libero, che può essere pericoloso per la vita, non
meno febbrile ed eccitante di quello di tutti i giorni, ma offre il vantaggio
del divertimento, l’illusione forse della libertà, forse addirittura veri
momenti di elevazione e di contentezza. Ora,
sarebbe stolto guardare ironicamente al fine settimana ed alla libertà: ognuno
di noi è contento dello spazio di libertà, che qui si presenta, sebbene siano molto
divergenti i punti di vista sul come sfruttare nel modo migliore questo tempo.
È ovvio che chi vive coscientemente
non potrà accontentarsi di passare
passivamente dal lavoro al tempo libero e dal tempo libero al lavoro; egli
dovrà, di quando in quando, fermarsi e
chiedere in che direzione si muovono la sua vita, dove sono dirette tutte le
cose, gli uomini ed il mondo. Egli dovrà assumersi un po’ di
responsabilità per questo movimento e per la sua direzione e non potrà
limitarsi a partecipare semplicemente all’offerta consumistica, che
costantemente si diffonde, senza chiedersi da dove essa viene e dove va.
Così, per chi vive coscientemente, il riflettere sul significato
della festa non sarà certo così deplorevolmente fuori moda ed inutile come parrebbe
sembrare in un primo momento.
Quando sul calendario vediamo
segnata la Pentecoste, potremmo anzitutto ricordarci che questa festa ha in
qualche modo a che fare con ciò che noi chia[299]miamo
«spirito». Anche
colui per il quale l’aderire alla fede cristiana è divenuto difficile sarà così
sollecitato ad una qualche riflessione.
Cosa vuol dire propriamente questa
parola «spirito»?
Oggi incontriamo uno spirito soprattutto nel senso di calcolo, di
sapere immagazzinato, che si può ottenere dai computers ed usarne, nel senso di una progettazione che ci fa parti
di un gigantesco apparato, che nessuno più controlla.
È un meccanismo che avanza e trasforma l’uomo stesso, come il suo futuro, in un
fattore sempre più calcolabile di un ampio tutto. Quando udiamo questo e
vediamo perciò venire verso di noi le prospettive del futuro, di un mondo
matematizzato, nel quale saranno affogati gli ultimi resti del romanticismo, in
tutte le speranze ed in tutte le attese avvertiamo allora qualcosa di sospetto.
Sebbene non possiamo disconoscere le
utilità, le comodità, le promesse, gli aspetti sublimi e liberanti che ci sono
giunti dalla razionalizzazione del mondo, ci riesce spontaneo comprendere voci
come quella di Jean Rostand: «Provo tanta paura di fronte alla scienza della
natura, perché credo soltanto in essa»[nota 1] o di Henri Bergson che,
alla vista dell’immenso sviluppo tecnico del nostro secolo, pensava che
l’umanità avesse «un corpo troppo grande per la sua anima»[nota 2].
Sorge allora il problema: la realtà «spirito» si esaurisce
veramente in ciò che abbiamo poc’anzi descritto o va oltre? Esiste uno spirito
solo nella forma «positiva» del computer
o anche nel senso di ciò che Bergson definisce anima?
Si può forse dire, addirittura, che ci
veniamo a trovare dinanzi alla peculiarità di ciò che si definisce ed è
spirito, dinanzi al fatto determinante e salvante, quando si giunge allo spirito
immagazzinabile in computers?
A questo punto, viene toccata la soglia della decisione, alla quale
ci vuol invitare la Pentecoste: anzitutto, una decisione si esige per passare
dal fine settimana alla festa, dal semplice servirsi della macchina consumistica
ad una attenta riflessione in tal senso. Ed una decisione si esige anche per
superare lo spirito constatabile di una scienza della pianificazione, per
giungere a qualcosa di più grande, che sicuramente è anche più nascosto.
Pierre Henri Simon suggerisce che sarebbe meglio chiamare
intelletto, e non spirito, tutto ciò che abbiamo sin qui descritto: lo
intelletto è allora la somma delle forze recettive, logiche e pragma[300]tiche della
coscienza.
Lo spirituale, nel senso vero del termine, rivela invece l’ordine
dei valori al di là dei fatti, la libertà al di là delle leggi, un’esistenza
che pone la giustizia al di sopra dell’interesse [nota 3]. Uno spirito così inteso non può più esser
calcolato ed immagazzinato. Esso ammette l’imprevedibile: è un atteggiamento
«che realizza la felicità dell’ego,
spezzando l’egoismo», e può essere raggiunto solo nella decisione del cuore, di
tutto l’uomo.
Una volta giunti però a questa soglia, non si è ancora colto il
messaggio cristiano della Pentecoste. Infatti, una tale decisione dello
spirito contro il puro positivo può essere pronunciata anche da non cristiani
ed è, di fatto, diffusa fra l’umanità. Tuttavia, abbiamo forse toccato qui il
punto in cui può sorgere per l’uomo d’oggi ciò che la fede cristiana dice dello
spirito creatore, che rinnova la terra.
Agli occhi della maggior parte dei contemporanei, sovente
persino di coloro che vogliono credere cristianamente, il messaggio
pentecostale della Bibbia e di coloro che lo predicano appare come un ebbro
barbugliare, come l’incomprensibile balbettio di visionari che non si sono
ancora accorti che siamo entrati nella viva luce dell’era moderna, dove non c’è
più posto per cose del genere.
È difficile capire che, in
definitiva, la realtà pentecostale si incontra nel confronto tra «positivo» e
«spirituale», tra uomini che servono soltanto agli apparecchi ed uomini che,
malgrado tutto, credono alla contemplazione ed all’amore, alla verità ed alla
stabilità dei valori. In
fondo, ci troviamo oggi dinanzi al problema di sapere se l’umanità possa esser
salvata dal perfezionamento degli «apparecchi», o se abbia ancora valore
l’affermazione di Pascal «che tutti i corpi e tutti gli spiriti e tutto ciò che
questi possono generare non valgono tanto quanto il più piccolo impulso d’amore...»[nota 4].
Ma chiediamoci finalmente:
qual è il vero e proprio significato cristiano della Pentecoste? Che cosa si
intende per lo «Spirito Santo» di cui parla quel messaggio?
Gli Atti degli apostoli ce lo
spiegano con un immagine; e non ci si potrebbe forse esprimere diversamente,
perché la realtà di questo Spirito si sottrae completamente alla nostra comprensione.
Gli Atti raccontano che gli apostoli furono toccati da
[301] lingue di fuoco ed
incominciarono, quindi, a parlare in un modo che agli uni (ai «positivi»)
apparve come ubriachezza, come chiacchiere insensate ed inutili, mentre gli
altri, persone provenienti da tutto il mondo allora conosciuto, li udirono
ciascuno parlare nella propria lingua.
Lo sfondo di questo testo è costituito dalla descrizione
veterotestamentaria della costruzione della torre di Babele; con l'aiuto di
quel passo, gli Atti degli apostoli delineano un quadro dì grande efficacia.
Il racconto veterotestamentario riferisce che gli uomini,
nell’arbitrarietà del loro progresso, cercarono di innalzare una torre che
raggiungesse il cielo; ciò vuole dire che essi credettero, con le loro
costruzioni e le loro pianificazioni, di gettare i ponti fino al cielo, di
rendere accessibile il cielo con le sole loro forze, di poter trasformare l'uomo
in divinità. Il risultato fu la confusione delle lingue.
L’umanità
che cerca solamente se stessa, che cerca di ottenere la sua salvezza nella
soddisfazione dell’insorgente egoismo di ognuno, cade in una radicale
contrapposizione, dove nessuno più capisce il vicino. E, con la fine della
comprensione, rimane insoddisfatto anche l'egoismo.
Il racconto della Pentecoste, che troviamo nel Nuovo Testamento,
riprende questo pensiero; anche qui si è del parere che la condizione presente
dell’umanità è la disunione, l’essere l'uno accanto all’altro e l’uno contro
l’altro. Questo è dovuto alla divinizzazione di se stessi, per cui tutto cade
in una falsa prospettiva, di modo che alla fine l’uomo non capisce più né Dio,
né il mondo, né l'altro, né se stesso.
Lo «Spirito Santo» crea
comprensione, perché è l'amore che proviene dalla croce, dall’autorinuncia di
Gesù Cristo. Non è necessario tentare qui di ripensare
dettagliatamente i nessi dogmatici, che si presentano a questo proposito. Per il nostro contesto può essere
sufficiente ricordare l’espressione con cui Agostino provò a riassumere il
nucleo del racconto pentecostale: la storia del mondo – egli dice – è una
lotta tra due diversi amori: amore di sé fino all’odio di Dio ed amore di Dio
fino all’abbandono dell'io. Ma il secondo è la redenzione del mondo e dell’io [nota 5].
Io ritengo che sarebbe già molto se i giorni della Pentecoste, al di là dello spensierato consumismo, riuscissero a richiamarci alla
responsabilità, se ci facessero superare l’intelletto, il sapere pianifica[302]bile ed
immagazzinabile, e ci portassero a riscoprire lo «spirito», la responsabilità
della verità, dei valori della coscienza e dell’amore.
Infatti, anche se per il momento non scopriamo l’aspetto
propriamente cristiano, toccheremmo, per così dire, il lembo di Cristo e del
suo Spirito. A lungo andare, cioè, «verità» e «amore» non possono
certo esistere senza avere un luogo proprio, in uno spazio vuoto. Se questa è la
misura e la speranza costanti dell’uomo, allora non sono una parte della storia
mutevole, ma il punto di riferimento del movimento di essa. Allora, non si
tratta di idee lontane, ma queste hanno un volto e ci chiamano. Sono allora
esse stesse «amore», persona quindi. Allora lo Spirito Santo è veramente
«spirito» nella pienezza di ciò che solo questa parola può significare.
Probabilmente, uscendo da un mondo
profondamente mutato, dobbiamo andare a tastoni verso di lui, in maniera
completamente nuova. Forse a qualcuno sembrerà impossibile percorrere il
cammino fino alla fine, fino alla «sobria ubriachezza» della fede pentecostale.
Ma l’annuncio pressante della Pentecoste, che scuote quel terribile
«sonno delle coscienze» di cui parla ancora una volta Pierre Henri Simon [nota 6], dovrebbe e potrebbe riguardarci tutti:
il vento impetuoso di Pentecoste assale tutti noi: anche oggi, proprio oggi.
[nota 1] Citato secondo P. H. Simon, Woran ich
glaube, Tübinge, 1967, p. 176; a questo libro importante devo la maggior
parte dei suggerimenti per la presente meditazione.
[nota 2] P. H. Simon,
Woran ich glaube cit., p. 180.
[nota 3] Ibid., pp. 175-183.
[nota 4] B. Pascal, Pensées, fr. 829, in Oeuvres completes (ed. J. Chevalier) Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1954,
pp. 1341 s. Cfr. l’esauriente analisi di questo testo in R. Guardini, Christliches Bewusstsein. Versuche über Pascal, München 19502,
40 ss. e 101 ss.
[nota 5] Per l’analisi agostiniana dal rapporto
tra Babele e la Pentecoste, cfr. J.
Ratzinger, Die Einheit der
Nationen, Salzburg-München 1971, pp. 71-106.
[nota 6] P. H. Simon, Woran ich glaube cit., p. 190.
Nessun commento:
Posta un commento