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Accusare come Giobbe?

tratto da Joseph Ratzinger, Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio. In colloquio con Peter Seewald, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 34-38


Accusare come Giobbe?

D. Lo scrittore Joseph Roth si è davvero scontrato con il suo Dio, conformemente all’antica tradizione ebraica. «Milioni di miei simili procrei nella tua feconda insensatezza», ha scritto sotto l'impressione degli orrori della prima guerra mondiale. «Non voglio la tua grazia», urla al cielo disperato, «mandami all'inferno».
R. Forse la rivolta è impressa con tanta forza nella carne dell’Ebraismo anche perché non è ancora apparso il Cristo, il Dio [34] che compatisce, che salva le anime e che si cala nella miseria della condizione umana, che non si staglia più di fronte a noi come grande impenetrabile mistero quale appare a Giobbe ma come colui che si è abbassato fino al gradino più infimo così da poter dire di sé con il Salmo: «Ma io sono verme, non uomo», uno che è stato schiacciato e calpestato.

Proprio in tempi in cui siamo preda del bisogno si ripropone la domanda: Perché mi fai questo?! Dicevamo all’inizio che, quando diciamo apertamente a Dio la nostra incapacità di comprenderlo, proprio allora, spesso, poniamo le basi per pregarlo in maniera non formale e per elaborare e superare ciò che ci accade. Lo diciamo con la certezza di ricevere la risposta giusta perché il Crocifisso, che ha subito dolore e umiliazione quanto me, mi è sempre dinanzi.


D. Forse mi sbaglio, ma mi pare che il rapporto con Dio nel Cristianesimo sia piuttosto improntato alla devozione. Agostino dice: «Signore, io non mi scontro con te perché tu sei la verità... Non ti chiedo conto... Ma nella tua misericordia, consentimi di parlare, io che sono polvere e cenere».
R. Agostino, che è sempre stato un uomo che molto ha sofferto e lottato, è stato molto tormentato da questa domanda. All’inizio pensava che, dopo la conversione, sarebbe iniziato un cammino in piano. Poi ha capito che anche un sentiero in piano rimane tremendamente difficile, contrappuntato da valli tenebrose. Era convinto che persino san Paolo aveva dovuto resistere fino all’ultimo a delle tentazioni, convinzione che era probabilmente frutto della sua esperienza, da lui proiettata su san Paolo. Ma proprio perché così grande era l’angoscia che Agostino provava, era essenziale potersi rivolgere a Dio come al Misericordioso da cui attendersi un rifugio sicuro, in cui fissare un volto fulgido di bontà e non come a un soggetto con cui scontrarsi.

In questo senso credo che la figura di Cristo depuri il nostro scontro con Dio di un po’ della sua asprezza. La risposta, che embrionalmente si dischiude a Giobbe all’apparire del Creatore, è nel frattempo ulteriormente maturata. [35]

D. Insisto: molte persone proprio in una situazione di bisogno cercano soccorso nella fede. Talvolta funziona, ma talvolta si sente crescere dentro di sé, la domanda: mio Dio, dove sei? Perché non mi aiuti quando ho bisogno di te?
R. Il libro di Giobbe è il classico urlo dell’uomo che sperimenta la miseria dell’esistenza e il silenzio di Dio. E persino un Dio apparentemente ingiusto. Giobbe è disperato e adirato tanto da riversare poi davanti a Dio ciò che lo abbatte e gli fa dubitare della bontà della vita.

Sono le questioni se sia bene vivere, se Dio è davvero buono, se davvero esiste e se ci aiuta veramente. Il tormento di notti assillate da questi interrogativi non ci viene risparmiato. Evidentemente sono necessarie perché nel dolore si apprenda, perché in esso si sviluppi una libertà interiore, una maturità e ancor prima la capacità di condividere la sofferenza altrui.

Una risposta definitiva e razionale, una formula con cui spiegare tutto ciò non esiste. Perché, laddove il dolore penetra sotto la pelle fino al cuore, allora sono tutt’altre le forze in gioco e non si possono più spiegare con formule universali, ma in ultima analisi possono solo essere messe in chiaro se le si attraversa soffrendo in prima persona.

D. «Notti di dolore mi sono state assegnate», lamenta Giobbe, «se mi corico, dico: “Quando mi alzerò?”. Si allungano le ombre e sono stanco di rigirarmi fino all’alba... il mio occhio non rivedrà più il bene». Che cosa si ricava dalla fede se questa non ti risparmia nemmeno questo dolore spirituale ?
R. Questo interrogativo è ammissibile perché, se faccio qualcosa, questo deve avere un senso. Si vuole sapere se è davvero giusto, se significa davvero qualcosa o se è un’illusione. Ma diventa erroneo se si considera tutto ciò che esiste solo dal punto di vista dell’io, solo dall’angolatura dell’utile che posso trarne. Allora ci si pone in una prospettiva di pulsione verso la vita, di chiusura in se stessi che non ci consente più di comprendere e che, in ultima analisi, costituisce la base del nostro fallimento esistenziale. [36] Cristo disse una volta: Chi ama la propria vita, la perderà. E solo chi perde la propria vita, chi è disposto a farne dono, si colloca nella prospettiva giusta e può trovarla. Questo significa che, in ultima analisi, devo rigettare la domanda su ciò che ne ricavo. Devo imparare a riconoscere ciò che è importante, a lasciarmi andare. Devo essere disposto a donare me stesso.

D. Facile a dirsi.
R. Ma l’amore umano è davvero grande e arricchente se comprende la disponibilità a rinunciare a se stessi per amore degli altri, a uscire da sé, a fare dono di sé. E questo vale innanzitutto per il nostro rapporto con Dio, da cui solo scaturiscono alla fin fine tutte le altre relazioni.

Devo iniziare col non concentrare più l’attenzione su me stesso ma a domandarmi cosa lui vuole da me. Devo iniziare con l’imparare ad amare, a distogliere cioè lo sguardo da me stesso per rivolgerlo a lui. Se in questa prospettiva cesso di chiedermi cosa posso ottenere, ma mi lascio semplicemente guidare da lui, mi perdo in Cristo, mi lascio andare, dimentico di me stesso, allora noto come la mia vita si riaggiusti perché ho superato la ristrettezza egoistica che mi spingeva a concentrarmi sulla mia persona. Quando, per così dire, esco in campo aperto, solo allora incomincio ad avvertire la grandiosità dell’esistenza.

D. Questo significa che probabilmente questa storia può durare anche a lungo.

R. Questo naturalmente è un percorso che non può essere fatto dall’oggi al domani. Se si ha di mira un rapido raggiungimento della felicità, questo obiettivo e difficilmente compatibile con la fede. E questa è forse una delle ragioni che minano oggi la fede, la frettolosità con cui vogliamo soddisfare il nostro bisogno di felicità e passione e non abbiamo il coraggio di rischiare quell’avventura che dura tutta una vita; alimentata dalla fiducia che il salto della fede non sfoci nel nulla ma che, per sua essenza, costituisca quell’atto dell’amore per cui sia[37]mo stati creati. E che solo mi dà ciò che io desidero: amare ed essere amato e trovare in questo la vera felicità.

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