Il presente blog propone estratti dai libri e dagli scritti di Joseph Ratzinger.

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Dio e il mondo - Prologo. Fede, speranza, carità

tratto da Joseph Ratzinger, Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio. In colloquio con Peter Seewald, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001,  Prologo - Fede, speranza, carità, pp. 11-19.



Prologo - Fede, Speranza, Carità [11]
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D. Eminenza, anche Lei talvolta ha paura di Dio?
R. Non parlerei di paura. Grazie a Cristo sappiamo com’è Dio, sappiamo che ci ama. E lui sa come siamo fatti noi. Sa che siamo carne, che siamo polvere. Perciò ci accetta con la nostra debolezza. Comunque avverto sempre il senso bruciante della mia inadeguatezza alla vocazione, dell’inadeguatezza all’idea che Dio ha di me, di quello che potrei e dovrei dare.


D. Non avverte in questi frangenti che Dio la critica o non approva qualcuna delle sue decisioni?
R. Dio non è un gendarme o un giudice sempre pronto a infliggere punizioni. Ma ogni giorno devo proiettare le mie azioni nello specchio della fede, anche alla luce dell’incarico che ho assunto, per riflettere su quello che se giusto e distinguere ciò che è distorto. Allora avverto naturalmente anche ciò che c'è di sbagliato. Per questo esiste il sacramento della Penitenza.

D. Si dice dei cattolici che sono pieni di sensi di colpa verso Dio.
R. Credo che i cattolici siano animati innanzitutto da una forte consapevolezza del perdono di Dio. Prendiamo l’arte barocca [13] o il rococò. Vi si avverte una grande serenità. A nazioni tipicamente cattoliche come l’Italia e la Spagna si attribuisce non senza ragione una leggerezza interiore.

Forse in alcuni contesti il cristianesimo è stato piegato a forme educative e torsioni in cui hanno preso il sopravvento elementi di durezza, di severità, di terrore, ma queste tendenze sono estranee al Cattolicesimo. Ho l’impressione che proprio in uomini che vivono della fede della Chiesa prevalga alla fine la consapevolezza della redenzione: Dio non ci fa cadere!

D. C’è una lingua di cui Dio si serve per dirci talvolta molto concretamente: «Sì, fallo» oppure: «Fermati, questo è l'ultimo avvertimento. Lascia perdere»?
R. La lingua di Dio è sommessa. Ma i segnali che ci lancia sono multiformi. Guardando a ritroso possiamo renderci conto che Dio si è servito di nostri amici, di un libro o anche di un apparente fallimento, e persino di incidenti per darci uno scossone. La vita è piena di queste tacite indicazioni. Lentamente, se rimango vigile, si ricompone il mosaico e inizio ad avvertire il modo in cui Dio mi guida.

D. Per Lei che parla personalmente con Dio, la comunicazione con lui è diventata così naturale come telefonare?
R. Sotto certi aspetti il paragone può reggere. So che lui è sempre presente. E lui sa comunque chi sono e che cosa sono. A maggior ragione avverto l’esigenza di invocarlo, di comunicare con lui, di parlare con lui. Con lui posso misurarmi sulle questioni più semplici e interiori come su quelle più grandi e gravose. Per me è in qualche modo normale avere sempre la possibilità, nel quotidiano, di rivolgermi a lui.

D. In questi momenti di dialogo Dio si comporta sempre con rispetto o dimostra anche di possedere senso dell’umorismo?
R. Credo che disponga di un notevole senso dell’umorismo. Talvolta dà persino una gomitata e raccomanda di non pren[14]dersi troppo sul serio! L’umorismo è una componente della serenità della creazione. In molti momenti della nostra vita possiamo notare come Dio ci inciti a prendere la vita con maggiore leggerezza, a vedervi anche i lati allegri, a scendere dal piedistallo e a non trascurare il senso del comico.

D. Le è mai capitato di prendersela con Dio?
R. Naturalmente mi capita talvolta di pensare: Perché non mi sostiene maggiormente? Talvolta mi pare indecifrabile. Nelle situazioni che provocano la mia collera avverto in qualche modo anche il suo mistero, la sua estraneità. Ma prendersela direttamente con Dio significherebbe sminuirlo. Anzitutto vi sono dei fattori superficiali che possono provocare la collera. E laddove la collera sia effettivamente giustificata, ci si deve sempre chiedere se, anche attraverso le cose e le persone che suscitano la nostra collera, non ci venga comunicato qualcosa di importante. Ma con Dio non me la prendo mai.

D. Come inizia la Sua giornata?
R. Per prima cosa, prima di alzarmi, recito una breve preghiera. Il giorno assume tutt’altro aspetto se non ci si immerge direttamente nel flusso delle cose. Seguono poi tutte le cose cui ci si dedica nei primi momenti della giornata: lavarsi, fare colazione. Quindi vengono la Santa Messa e il breviario. Per me questi rappresentano gli atti fondamentali della giornata. La Messa è l’incontro reale con la presenza del Cristo risorto, mentre recitare il breviario significa penetrare nella grande preghiera dell’intera storia della salvezza, di cui i Salmi rappresentano il cuore. Allora si prega all’unisono con i millenni e ci raggiunge la voce dei Padri. Tutto questo ci apre la porta oltre la quale ci si immette nel pieno della giornata. A quel punto inizia il lavoro normale.

D. E con che frequenza prega?
R. Momenti fissi dedicati alla preghiera sono il mezzogiorno, in cui, secondo la tradizione cattolica, ci si rivolge all’angelo [15] del Signore, i Vespri al pomeriggio e alla sera la completa, la preghiera serale della Chiesa. E nel frattempo, se avverto di aver bisogno di aiuto, posso pur sempre inframmezzare delle brevi preghiere.

D. La preghiera che recita prima di alzarsi può variare?
R. No, è una preghiera fissa, a dire il vero si tratta di una raccolta di diverse brevi preghiere, ma nel complesso rappresenta una formula fissa.

D. Può darci un consiglio in proposito?
R. Ognuno può scegliersi qualcosa entro il tesoro della Chiesa.

D. E di notte, quando non si riesce a trovare requie...
R. …consiglierei di recitare il Rosario. È una preghiera che, al di là del suo significato spirituale, possiede una forza rasserenante dal punto di vista psicologico. Se ci si concentra sulle parole della preghiera, ci si libera gradualmente dai pensieri tormentosi.

D. Come affronta personalmente i problemi, ammesso che ne abbia?
R. Come potrei non averne? Da un lato tento di riversare i problemi nella preghiera e di rinsaldarmi interiormente. Dall’altro tento di applicarmi a qualcosa che mi richiede impegno, di dedicarmi fino in fondo a un compito che mi stimoli ma che, contemporaneamente, mi dia anche gioia. E infine l'incontro con gli amici mi risolleva un po’ da ciò che mi angustia. Queste tre componenti sono importanti.

D. Credo che ognuno si senta di tanto in tanto stanco, distrutto, svuotato di energie, disperato e irato anche per la propria sorte apparentemente ingiusta. Riversare i problemi nella preghiera, come ha detto Lei: come fare?
R. Forse si inizia come Giobbe. Bisogna iniziare col gridare a Dio anche interiormente i propri rimproveri, col dirgli senza [16] mezzi termini: Che vuoi fare di me?! La voce di Giobbe rimane una voce autentica che ci dice anche che possiamo, e forse persino dobbiamo osare. Per quanto Giobbe non si sia inchinato davanti a Dio e l’abbia accusato, Dio alla fine gli dà ragione. Dio lo approva e accusa gli altri, quelli che avevano una spiegazione per tutto, di non aver parlato rettamente di lui. Giobbe entra in conflitto e gli espone le sue accuse. Gradualmente, poi, inizia a prestare ascolto alle parole di Dio, si verifica una svolta e le cose appaiono in un’altra prospettiva. Si esce in questo modo dalla mera condizione di chi subisce torti e si capisce di non poter certo comprendere in questo momento l’amore che lui rappresenta, ma di poter contare sulla bontà di ciò che si verifica.

D. Forse i problemi andrebbero semplicemente affrontati con maggiore rigore, non solo accettati.
R. Problemi non possono non essercene. Certe decisioni, insuccessi, rapporti umani sbagliati, delusioni toccano le persone e non possono non toccarle. I problemi servono anche ad educarci a rielaborare certe cose. Se diventassimo d’acciaio, impermeabili, ne perderemmo anche in umanità e sensibilità nei confronti degli altri. Lo stoico Seneca ha detto che la pietà è qualcosa di ripugnante. Al contrario, noi vediamo in Cristo colui che com-patisce, le questo ce lo rende prezioso. Del cristiano sono propri anche la pietà, anche la vulnerabilità. Si deve allora imparare ad accettare le ferite, a convivere con le ferite e a trovare infine un modo più profondo per farle rimarginare.

D. Molti sapevano pregare da bambini, poi hanno perso questa capacità. Quella di parlare con Dio è una capacità che va imparata?
R. Il senso di Dio può atrofizzarsi a tal punto che le parole della fede perdono totalmente di significato. E chi non ha più ca[17]pacità di ascolto, non è nemmeno in grado di parlare, perché sordità e mutismo vanno di pari passo.
È come se si dovesse apprendere la propria lingua madre. Lentamente si impara a decifrare i segni di Dio, a parlare questa lingua e a comprendere Dio, per quanto in maniera inadeguata. Gradualmente, poi, si imparerà a pregare personalmente e a parlare con Dio, dapprima in maniera molto infantile – in un certo senso rimaniamo sempre bambini- ma poi sempre di più con le proprie parole.

D. Lei ha detto una volta: Se l’uomo si fida solo di ciò che vede con i propri occhi, allora in verità è cieco…
R. …perché allora limita il proprio orizzonte al punto che gli sfugge l’essenziale. Non vede nemmeno il proprio raziocinio. Proprio le cose effettivamente portanti non possono essere viste soltanto con gli organi sensoriali, e da questo punto di vista non vede ancora adeguatamente se non è in grado di guardare oltre ciò che è immediatamente percepibile.

D. Qualcuno mi ha detto che avere fede è come fare un balzo da un acquario nel bel mezzo dell’oceano. Ricorda la Sua prima grande esperienza di fede?
R. Direi che ho piuttosto vissuto una crescita silenziosa. Naturalmente ci sono degli apici, in cui nella liturgia, nella teologia, nel primo abbozzarsi di una visione teologica, ti si aprono degli squarci, in cui improvvisamente ti si spalancano degli orizzonti entro cui scorgi elementi portanti che non hai semplicemente rilevato da altra fonte. Quel grande balzo di cui Lei ha parlato, quell’evento speciale, non riuscirei a identificarlo nella mia vita. E piuttosto come quando, dalle acque basse della riva, ci si spinge, lentamente e con prudenza, sempre più oltre fino ad iniziare ad avvertire i segni dell’oceano che ci viene incontro.

Penso anche che non si viene mai definitivamente a capo della fede. La fede deve essere sempre vissuta da capo nella sofferenza e nella vita come pure nelle grandi gioie di cui Dio [18] ci fa dono. Non è mai qualcosa che si incamera semplicemente come una moneta.

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