tratto da Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in
Gerusalemme fino alla Risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 2011, pp. 11-34
Capitolo
1 - Ingresso in Gerusalemme e purificazione del Tempio
1. L’ingresso in Gerusalemme
Il Vangelo di Giovanni riferisce su tre feste di Pasqua, che Gesù ha celebrato
durante il periodo della sua vita pubblica: una prima Pasqua, alla quale
era legata la purificazione del tempio (2,13-25); la Pasqua della
moltiplicazione dei pani (6,4) e infine la Pasqua della morte e risurrezione
(p. es. 12,1; 13,1), che è divenuta la «sua» grande Pasqua, sulla quale si fonda
la festa cristiana, la Pasqua dei cristiani. I sinottici hanno trasmesso notizia di una sola Pasqua: quella della
croce e risurrezione; in Luca il cammino di Gesù appare quasi come un unico
ascendere in pellegrinaggio dalla Galilea fino a Gerusalemme.
È una «ascesa» innanzitutto nel senso geografico:
il Mare di Galilea è situato a 200 metri circa sotto il livello del mare, l’altezza
media di Gerusalemme è di 760 metri al di sopra di tale livello. Come gradini
di questa salita, ciascuno dei sinottici
ci ha trasmesso tre profezie di Gesù circa la sua passione, alludendo con ciò
anche all’ascesa interiore, che si svolge nel cammino esteriore: l’andar su verso il tempio come luogo dove
Dio voleva «stabilire il suo nome»
– così il Libro del Deuteronomio
descrive il tempio (cfr 12,11; 14,23). [11]
L’ultima
meta di questa «ascesa» di Gesù è l’offerta di se stesso sulla croce, offerta
che sostituisce i sacrifici antichi;
è la salita che la Lettera agli Ebrei
qualifica come l’ascesa verso la tenda non più fatta da mani d’uomo, ossia nel
cielo stesso, al cospetto di Dio (9,24). Questa
ascesa fino al cospetto di Dio passa attraverso la croce – è la salita verso
l’«amore sino alla fine» (cfr Gv
13,1), che è il vero monte di Dio.
La
meta immediata del pellegrinaggio di Gesù, tuttavia, è Gerusalemme, la città santa con il suo tempio, e la
«Pasqua dei Giudei», come la chiama Giovanni (2,13). Gesù si era incamminato
insieme ai Dodici, ma poco a poco si era associata a loro una schiera crescente
di pellegrini; Matteo e Marco ci raccontano che già alla partenza da Gerico
c’era una «grande folla» che seguiva Gesù (Mt
20,29; cfr Mc 10,46).
Un evento in quest’ultimo tratto del percorso
aumenta l’attesa di ciò che sta per avvenire e mette Gesù in modo nuovo al
centro dell’attenzione dei pellegrini. Lungo la strada sta seduto un mendicante
cieco di nome Bartimeo. Egli viene a sapere che fra i pellegrini c’è Gesù, e
allora non cessa più di gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (Mc 10,47). Si cerca di quietarlo, ma
invano, e alla fine Gesù lo invita ad avvicinarsi. Alla sua supplica: «Rabbunì,
che io riabbia la vista!», Gesù risponde: «Va’, la tua fede ti ha salvato».
Bartimeo
riacquistò la vista «e prese a seguire Gesù per la strada» (Mc 10,48-52).
Diventato vedente, egli si associò al pellegrinaggio verso Geru[12]salemme. A un tratto il tema «Davide» e la sua
intrinseca speranza messianica s’impadronì della folla: quel Gesù, col quale
erano in cammino, non era forse davvero l’atteso nuovo Davide? Con il suo
ingresso nella città santa era forse arrivata l’ora in cui Egli avrebbe
ristabilito il regno di Davide?
La preparazione, che Gesù realizza con i suoi
discepoli, aumenta questa speranza. Gesù arriva al Monte degli ulivi dalla direzione
di Bètfage e Betània, da dove si attende l’ingresso del Messia. Manda avanti
due discepoli ai quali dice che avrebbero trovato un asino legato, un puledro,
sul quale nessuno era mai salito. Devono scioglierlo e portarglielo; ad un’eventuale
domanda circa la loro legittimazione devono rispondere: «Il Signore ne ha
bisogno» (Mc 11,3; Lc 19,31). I discepoli trovano l’asino,
vengono – come previsto – interrogati circa il loro diritto, danno la risposta
loro ordinata e possono compiere la loro missione. Così Gesù entra in città
su un asino preso in prestito, 24/613 che subito dopo farà riportare al suo padrone.
Al
lettore di oggi tutto ciò può sembrare piuttosto trascurabile, ma per i giudei
contemporanei di Gesù è gravido di riferimenti misteriosi. In ogni particolare
è presente il tema della regalità con le sue promesse. Gesù rivendica il diritto regale della
requisizione di mezzi di trasporto, un diritto noto in tutta l’antichità (cfr Pesch,
Markusevangelium II, p. 180). Anche il fatto che si tratti di un animale, sul
quale non è ancora salito nessuno, rimanda a un diritto regale. Soprattutto, però,
c’è [13] un’allusione a quelle parole veterotestamentarie che danno all’intero svolgimento
il suo significato più profondo.
C’è innanzitutto Genesi 49,10s – la benedizione di Giacobbe, in cui viene assegnato
a Giuda lo scettro, il bastone del comando, che non sarà tolto tra i suoi piedi
«finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli».
Di Lui si dice che Egli lega alla vite il suo asinello (49,11). L’asino legato rimanda
quindi a Colui che deve venire, a cui «è dovuta l’obbedienza dei popoli».
Ancora più importante è Zaccaria 9,9 – il testo che Matteo e
Giovanni citano esplicitamente per la comprensione della «Domenica delle
Palme»: «Dite alla figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su
un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma» (Mt 21,5; cfr Zc 9,9; Gv
12,15). Sul significato di queste parole del profeta per la comprensione della figura
di Gesù abbiamo già riflettuto ampiamente commentando la beatitudine dei miti
(dei mansueti) (cfr Parte I, pp. 104-109). Egli
è un re che spezza gli archi da guerra, un re della pace e un re della
semplicità, un re dei poveri. E infine abbiamo visto che Egli governa un
regno che si estende da mare a mare e abbraccia il mondo intero (cfr ibid., p. 105); questo ci ha ricordato
il nuovo regno universale di Gesù che, nelle comunità della frazione del pane,
cioè nella comunione con Gesù Cristo, si espande da mare a mare quale regno
della sua pace (cfr ibid., p. 108s). Tutto
ciò allora non era percepibile, ma in retrospettiva si rende evidente quanto – nasco[14]sto
nella visione profetica – era appena accennato solo da lontano.
Per
ora teniamo a mente: Gesù rivendica, di fatto, un diritto regale. Vuole che si
comprenda il suo cammino e il suo agire in base alle promesse dell’Antico
Testamento, che in Lui diventano realtà. L’Antico Testamento
parla di Lui – e inversamente: Egli agisce e vive nella parola di Dio, non
secondo programmi e desideri suoi propri. La sua esigenza si basa sull’obbedienza
di fronte all’ordine del Padre. Il suo è un cammino all’interno della
parola di Dio. L’ancoraggio a Zaccaria
9,9 esclude al contempo
un’interpretazione «zelota» della regalità: Gesù non si fonda sulla violenza;
non avvia un’insurrezione militare contro Roma. Il suo potere è di carattere
diverso: è nella povertà di Dio, nella pace di Dio, che Egli individua l’unico
potere salvifico.
Ritorniamo allo svolgimento del racconto.
L’asinello viene condotto a Gesù, e ora avviene qualcosa di inaspettato: i
discepoli gettano sull’asino i loro mantelli; mentre Matteo (21,7) e Marco
(11,7) dicono semplicemente: «ed Egli vi si pose a sedere», Luca scrive: «vi
fecero salire Gesù» (19,35). È questa la parola usata nel Primo Libro dei Re
nel racconto dell’elevazione di Salomone sul trono di suo padre Davide. Lì si
legge che il re Davide ordina al sacerdote Zadòk, al profeta Natan e a Benaià:
«Prendete con voi la guardia del vostro signore: fate montare Salomone, mio
figlio, sulla mia mula e fatelo scendere a Ghicon! Ivi il sacerdote Zadòk con
il profeta Natan lo unga re d’Israele…» (1,33s). [15]
Anche
lo stendere i mantelli ha una sua tradizione nella regalità di Israele (cfr 2 Re 9,13). Ciò che i discepoli fanno è un gesto di intronizzazione nella
tradizione della regalità davidica e così nella speranza messianica, che da
questa tradizione si è sviluppata. I pellegrini, che insieme a Gesù sono
venuti a Gerusalemme, si lasciano contagiare dall’entusiasmo dei discepoli;
stendono ora i loro mantelli sulla strada sulla quale Egli avanza. Tagliano rami
dagli alberi e gridano parole del Salmo 118 – parole di preghiera della liturgia
dei pellegrini di Israele – che sulle loro labbra diventano una proclamazione messianica:
«Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che
viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!» (Mc 11,9s; cfr
Sal 118,25s).
Questa acclamazione viene trasmessa da
tutti e quattro gli evangelisti, anche se con le loro specifiche varianti. Di
tali differenze non irrilevanti per la storia della trasmissione e per la
visione teologica dei singoli evangelisti non dobbiamo occuparci in questo
luogo. Cerchiamo soltanto di comprendere le essenziali linee di fondo, tanto
più che la liturgia cristiana ha accolto questo saluto interpretandolo in base
alla fede pasquale della Chiesa.
C’è
innanzitutto l’esclamazione: «Osanna!». All’origine, questa era stata una parola di supplica, come:
«Deh, aiutaci!». Nel settimo giorno della festa delle Capanne, i sacerdoti,
girando sette volte intorno all’altare dell’incenso, l’avevano ripetuta in modo
monotono come supplica per la pioggia. Ma così come la festa delle Capanne da
[16] festa di supplica si trasformò in una festa di gioia, la supplica divenne
sempre di più un’esclamazione di giubilo (cfr Lohse, ThWNT IX, p. 682).
Probabilmente già ai tempi di Gesù, la parola
aveva assunto anche un significato messianico. Possiamo così nell’esclamazione «osanna» riconoscere un’espressione dei
molteplici sentimenti sia dei pellegrini venuti con Gesù sia dei suoi
discepoli: una lode gioiosa a Dio nel momento di quell’ingresso; la speranza
che fosse arrivata l’ora del Messia e al contempo la richiesta che si
realizzasse nuovamente il regno di Davide e con esso il regno di Dio su
Israele.
L’espressione seguente del Salmo 118: «Benedetto colui che viene
nel nome del Signore», apparteneva, come s’è detto, in un primo tempo alla
liturgia di Israele per i pellegrini, con la quale essi venivano salutati
all’ingresso della città o del tempio. È quanto dimostra anche la seconda parte
del versetto: «Vi benediciamo dalla casa del Signore». Era una benedizione che
dai sacerdoti veniva rivolta e quasi applicata ai pellegrini in arrivo. Ma l’espressione «che viene nel nome del
Signore» nel frattempo aveva assunto un significato messianico. Anzi, era
diventata addirittura la denominazione di Colui che era stato promesso da Dio.
Così, da una benedizione per i pellegrini, l’espressione
si è trasformata in una lode di Gesù, che è salutato come Colui che viene nel
nome del Signore, come l’Atteso e l’Annunciato da tutte le promesse.
Il particolare riferimento davidico che si
trova [17] soltanto nel testo di Marco riproduce per noi forse nel modo più
originale l’attesa dei pellegrini di quell’ora. Luca, che invece scrive per i
cristiani provenienti dal paganesimo, ha del tutto omesso l’osanna e il
riferimento a Davide, sostituendolo con l’esclamazione che allude al Natale:
«Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!» (19,38; cfr 2,14). Da tutti e
tre i Vangeli sinottici, ma anche da Giovanni, si evince chiaramente che la scena dell’ossequio messianico a Gesù si
è svolta all’ingresso della città e che i suoi protagonisti non erano gli
abitanti di Gerusalemme, ma coloro che accompagnavano Gesù entrando con Lui
nella città santa.
Matteo ce lo fa capire nel modo più esplicito,
proseguendo dopo il racconto dell’osanna rivolto a Gesù, figlio di Davide,
così: «Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione
e diceva: “Chi è costui?” E la folla rispondeva: “Questi è il profeta Gesù, da
Nazaret di Galilea”» (21,10s). Il
parallelismo con la narrazione dei magi dall’Oriente è evidente. Anche
allora nella città di Gerusalemme non si sapeva niente del neonato re dei
Giudei; la notizia di ciò aveva lasciato Gerusalemme «turbata» (Mt 2,3). Ora ci
si «spaventa»: Matteo usa la parola eseísthē
(seíō) che esprime lo sconvolgimento
causato da un terremoto.
Del profeta proveniente da Nazaret si era
in qualche modo sentito dire, ma Egli sembrava non avere alcun rilievo per
Gerusalemme, non era conosciuto. La
folla che, alla periferia della città, rendeva omaggio a Gesù non è la stessa
che avrebbe [18] poi chiesto la sua crocifissione. In questa duplice
notizia circa il non-riconoscimento di Gesù – un atteggiamento di indifferenza
e di spavento insieme – c’è già un qualche accenno alla tragedia della città,
che Gesù ha annunziato ripetutamente, in modo più esplicito, nel suo discorso
escatologico.
In Matteo, però, c’è anche un ulteriore importante
testo, proprio di lui soltanto, circa l’accoglienza di Gesù nella città santa.
Dopo la purificazione del tempio, alcuni fanciulli ripetono nel tempio le
parole dell’omaggio: «Osanna al figlio di Davide» (21,15). Gesù difende
l’acclamazione dei fanciulli davanti ai «sommi sacerdoti e agli scribi» col
riferimento al Salmo 8,3: «Dalla bocca di bambini e di lattanti hai tratto per
te una lode». Ritorneremo ancora a questa scena nella riflessione sulla
purificazione del tempio. Cerchiamo qui di comprendere che cosa Gesù ha voluto
dire col riferimento al Salmo 8, un’allusione con la quale ha spalancato una
vasta prospettiva storico-salvifica.
Ciò che Egli intendeva si rende evidente,
se ricordiamo l’episodio, riferito da tutti gli evangelisti sinottici, circa i bambini
condotti da Gesù, «perché li accarezzasse». Contro la resistenza dei discepoli, che vogliono difenderlo di fronte a
questa invadenza, Gesù chiama i bambini a sé, impone loro le mani e li
benedice. Egli spiega poi questo gesto con le parole: «Lasciate che i bambini
vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro appartiene il regno di
Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo
accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,13-16). I [19] bambini sono per Gesù l’esempio per eccellenza di quell’essere
piccoli davanti a Dio che è necessario per poter passare attraverso la «cruna
dell’ago», di cui parla il racconto del giovane ricco nel brano che segue
immediatamente (Mc 10,17-27).
Prima c’era già stato l’episodio in cui Gesù
aveva reagito alla disputa per la precedenza tra i discepoli mettendo in mezzo un
bambino e, abbracciandolo, aveva detto: «Chi accoglie uno solo di questi bambini
nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,33-37). Gesù
si identifica col bambino – Egli stesso si è fatto piccolo. Come Figlio non fa
niente da sé, ma agisce totalmente a partire dal Padre e in vista di Lui.
In base a ciò si capisce poi anche la pericope
successiva, in cui non si parla più di bambini, ma dei «piccoli» e l’espressione «i piccoli» diventa
addirittura la denominazione dei credenti, della comunità dei discepoli di Gesù
(cfr Mc 9,42). Nella fede essi hanno trovato questo autentico essere piccoli,
che riporta l’uomo alla sua verità.
Con ciò ritorniamo all’«osanna» dei bambini:
nella luce del Salmo 8 la lode dei bambini appare come un’anticipazione della
lode che i suoi «piccoli» intoneranno a Lui molto al di là di questa ora.
Per questo, con buona ragione la Chiesa nascente
poteva vedere in tale scena la rappresentazione anticipata di ciò che essa fa
nella liturgia. Già nel testo liturgico post-pasquale più antico che conosciamo
– nella Didachē (intorno all’anno 100) – prima della distribuzione dei Doni
sacri appare [20] l’«osanna» insieme col «Maranatha»: «Venga la grazia e passi questo
mondo. Osanna al Dio di Davide. Chi è santo, acceda; chi non lo è, si converta.
Maranatha. Amen» (10,6).
Molto presto è stato inserito nella
liturgia anche il Benedictus: per la
Chiesa nascente la «Domenica delle Palme» non era una cosa del passato. Come
allora il Signore era entrato nella città santa cavalcando l’asinello, così la
Chiesa lo vedeva arrivare sempre di nuovo sotto le apparenze umili del pane e
del vino.
La
Chiesa saluta il Signore nella santa Eucaristia come Colui che viene ora, che è
entrato in mezzo ad essa. E al contempo Lo saluta come Colui che rimane sempre
il Veniente e ci prepara alla sua venuta. Come pellegrini andiamo verso di Lui;
come pellegrino Egli ci viene incontro e ci coinvolge nella sua «ascesa» verso
la croce e la risurrezione, verso la Gerusalemme definitiva che, nella
comunione col suo Corpo, già si sta sviluppando in mezzo a questo mondo.
2.
La purificazione del Tempio
Marco ci racconta che Gesù dopo questa accoglienza
andò nel tempio, guardò ogni cosa attorno e, essendo ormai tardi, si recò a Betània,
dove alloggiava durante quella settimana. Il giorno dopo entrò di nuovo nel
tempio e cominciò a cacciare fuori quelli che vendevano e quelli che compravano;
«rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe»
(11,5). [21]
Gesù
giustifica questo suo agire con una parola del profeta Isaia che Egli integra
con una parola di Geremia:
«La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni. Voi invece
ne avete fatto un covo di ladri» (Mc 11,17; cfr Is 56,7; Ger 7,11). Che cosa ha
fatto Gesù? Che cosa intendeva dire?
Nella letteratura esegetica si possono
individuare tre grandi linee di interpretazione, che dobbiamo brevemente considerare.
C’è innanzitutto la tesi, secondo cui la purificazione
del tempio non significava un attacco contro il tempio come tale, ma colpiva
solo gli abusi. Certo, i commercianti erano autorizzati dall’autorità giudaica,
che ne traeva un grande profitto. In questo senso l’agire dei cambiamonete e dei
commercianti di bestiame era legittimo entro le norme in vigore; era anche comprensibile
che per le monete romane in uso, che a motivo dell’immagine dell’imperatore
dovevano essere considerate idolatriche, si provvedesse al loro cambio nella
valuta del tempio proprio entro l’ampio cortile dei gentili e lì si vendessero
anche gli animali da sacrificare. Ma, secondo l’impostazione architettonica del
tempio, questa mescolanza tra tempio ed affari non corrispondeva alla
destinazione del cortile dei gentili.
Con
il suo agire Gesù attaccava l’ordine in vigore disposto dall’aristocrazia del
tempio, ma non violava la Legge e i Profeti – al contrario: contro una prassi
profondamente corrotta, diventata «diritto», Egli rivendicava il diritto
essenziale e vero, il diritto divino di Israele. Solo così si spie[22]ga perché non siano
intervenute né le guardie del tempio, né la coorte romana presente nella
fortezza Antonia. Le autorità del tempio si limitarono a porre a Gesù la
domanda circa la sua legittimazione per una tale azione.
In questo senso è giusta la tesi, motivata minuziosamente
soprattutto da Vittorio Messori, secondo cui Gesù nella purificazione del
tempio agiva in sintonia con la legge impedendo un abuso nei confronti del
tempio. Se però da ciò si volesse trarre la conclusione che Gesù «appare come
un semplice riformatore che difende i precetti giudaici di santità» (così
Eduard Schweizer; cit. secondo Pesch, Markusevangelium II, p. 200), non si
valuterebbe bene il vero significato dell’avvenimento. Le parole di Gesù dimostrano che la sua rivendicazione andava più nel
profondo, proprio anche perché col suo agire intendeva dare compimento alla
Legge e ai Profeti.
Arriviamo così ad una seconda spiegazione, in contrasto con la prima – l’interpretazione
politico-rivoluzionaria dell’evento. Già nell’Illuminismo c’erano stati
tentativi di interpretare Gesù come rivoluzionario politico. Ma solo l’opera di
Robert Eisler, Iesous basileus ou
basileusas, pubblicata in due volumi (Heidelberg 1929/30), ha cercato di
dimostrare coerentemente sulla base dell’insieme dei dati neotestamentari che
«Gesù sarebbe stato un rivoluzionario politico di impronta apocalittica: avendo
suscitato a Gerusalemme un’insurrezione, Egli sarebbe stato arrestato e
giustiziato dai Romani» (così Hengel, War
Jesus Revolutionär?, p. 7). Il libro fece enorme sensazione, ma nella situa[23]zione
particolare degli anni trenta non esercitò ancora un effetto durevole.
Solo negli anni sessanta si formò il clima
spirituale e politico in cui una tale visione poteva sviluppare una forza esplosiva.
Fu allora Samuel George Frederick Brandon, nella sua opera Jesus and the Zealots (New York 1967), a dare all’interpretazione
di Gesù come rivoluzionario politico un’apparente legittimazione scientifica. Con ciò Gesù veniva collocato nella linea
del movimento zelota, che vedeva il suo fondamento biblico nel sacerdote
Pincas, un nipote di Aronne: Pincas aveva trafitto con la lancia un Israelita che
si era messo con una donna idolatra. Ora era visto come modello degli «zelanti»
per la legge, per il culto rivolto unicamente a Dio (cfr Num 25).
La sua origine concreta il movimento zelota
la individuava nell’iniziativa del padre dei fratelli Maccabei, Mattatia, il quale,
di fronte al tentativo di uniformare Israele totalmente al modello della
cultura unitaria ellenistica, privandolo con ciò anche della sua identità
religiosa, aveva affermato: «Non ascolteremo gli ordini del re per deviare
dalla nostra religione a destra o a sinistra» (1 Macc 2,22). Questa parola
avviò l’insurrezione contro la dittatura ellenistica. Mattatia mise in atto la
sua parola: uccise l’uomo che, seguendo i decreti delle autorità ellenistiche,
voleva pubblicamente sacrificare agli idoli. «Ciò vedendo, Mattatia arse di zelo…
Fattosi avanti di corsa, lo uccise sull’altare… Egli agiva per zelo verso la legge»
(1 Macc 2,24ss). D’allora in poi, la parola «zelo» (in greco: zēlos) fu la
parola guida per esprimere la disponibilità ad impegnarsi con la for[24]za in
favore della fede d’Israele, a difendere il diritto e la libertà di Israele per
mezzo della violenza.
Secondo la tesi di Eisler e di Brandon, Gesù
sarebbe da collocare in questa linea dello «zēlos» degli zeloti – una tesi che negli anni sessanta ha suscitato
un’onda di teologie politiche e di teologie della rivoluzione. Come prova
centrale di questa teoria si adduce ora
la purificazione del tempio, che sarebbe stata evidentemente un atto di
violenza, perché senza violenza non avrebbe neppure potuto svolgersi, sebbene
gli evangelisti abbiano cercato di nasconderlo. Anche il saluto rivolto a
Gesù quale figlio di Davide ed instauratore del regno davidico sarebbe stato un
atto politico e la crocifissione di Gesù da parte dei Romani sotto l’accusa di
«re dei Giudei» dimostrerebbe pienamente che Egli sarebbe stato un rivoluzionario
– uno zelota – e come tale sarebbe stato giustiziato.
Nel frattempo si è calmata
l’onda delle teologie della rivoluzione che, in base ad un Gesù interpretato
come zelota, avevano cercato di legittimare la violenza come mezzo per
instaurare un mondo migliore – il «Regno». I risultati terribili di una
violenza motivata religiosamente stanno in modo troppo drastico davanti agli
occhi di tutti noi. La violenza non instaura il regno di Dio, il regno
dell’umanesimo.
È, al contrario, uno strumento preferito
dall’anticristo – per quanto possa essere motivata in chiave religioso-idealistica.
Non serve all’umanesimo, bensì alla disumanità.
Ma ora, qual è la verità riguardo a Gesù? Era forse uno zelota? La
purificazione del tempio era forse [25] l’inizio di una rivoluzione politica?
L’intera attività e il messaggio di Gesù – a partire dalle tentazioni nel
deserto, dal suo battesimo nel Giordano, dal discorso della montagna fino alla
parabola del Giudizio finale (cfr Mt 25) ed alla sua risposta alla professione
di fede di Pietro – vi si oppongono decisamente, come abbiamo visto nella Prima
Parte di quest’opera.
No,
il sovvertimento violento, l’uccisione di altri nel nome di Dio non
corrispondeva al suo modo di essere. Il suo «zelo» per il regno di Dio era del
tutto diverso. Non
sappiamo che cosa precisamente immaginavano i pellegrini quando,
nell’«intronizzazione» di Gesù, parlavano del «regno che viene, del nostro
padre Davide». Ma ciò che Gesù stesso pensava e intendeva, lo ha reso assai evidente
con i suoi gesti e con le parole profetiche, nel cui contesto Egli poneva se stesso.
Certo, ai tempi di Davide l’asino era stato
l’espressione della sua regalità e, sulla scia di questa tradizione, Zaccaria presenta
il nuovo re della pace che cavalca un asino quando entra nella città santa. Ma
già ai tempi di Zaccaria, e ancor più in quelli di Gesù, il cavallo era
diventato l’espressione del potere e dei potenti, mentre l’asino era l’animale dei poveri e quindi l’immagine di una regalità
ben diversa.
È vero che Zaccaria annuncia un regno «da
mare a mare». Ma proprio con ciò egli abbandona il quadro nazionale ed indica una
nuova universalità, in cui il mondo trova la pace di Dio e, nell’adorazione dell’unico
Dio, è unito al di là di tutte le frontiere. In quel regno di cui il profeta parla,
gli [26] archi da guerra sono spezzati. Ciò che in lui è ancora una visione
misteriosa, la cui configurazione concreta, scrutata nel suo giungere da
lontano, non poteva essere percepita distintamente, si chiarisce lentamente
nell’operare di Gesù; tuttavia, solo dopo la risurrezione e nel cammino del
Vangelo verso i pagani, può prendere pian piano la propria forma. Ma anche nel
momento dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, la connessione con la profezia
tardiva, nella quale Gesù inseriva il suo agire, dava al suo gesto un orientamento
che contrastava radicalmente con l’interpretazione zelota.
In
Zaccaria Gesù non aveva trovato soltanto l’immagine del re della pace che
arriva sull’asino, ma anche la visione del pastore ucciso che mediante la sua
morte porta la salvezza, e ancora l’immagine del trafitto al quale tutti
avrebbero rivolto lo sguardo.
L’altra grande cornice di riferimento, entro la quale Egli vedeva il suo operare,
era la visione del servo sofferente di YHWH, che servendo offre la vita per i
molti e porta così la salvezza (cfr Is 52,13-53,12). Questa profezia tardiva è
la chiave d’interpretazione con la quale Gesù apre l’Antico Testamento; a
partire da essa Egli stesso diventa poi, dopo la Pasqua, la chiave per leggere
in modo nuovo la Legge e i Profeti.
Veniamo ora alle parole interpretative con cui Gesù stesso spiega il gesto della purificazione
del tempio. Atteniamoci anzitutto a Marco con cui Matteo e Luca, a prescindere
da piccole varianti, coincidono. Dopo l’atto della purificazione Gesù, ci
riferisce Marco, «insegnava». L’essenziale di [27] questo «insegnamento», l’evangelista
lo vede riassunto nella parola di Gesù: «Non sta forse scritto: La mia casa
sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni? Voi invece ne avete fatto
un covo di ladri» (11,17). In questa
sintesi della «dottrina» di Gesù sul tempio – come abbiamo già visto – sono
fuse insieme due parole profetiche.
C’è
innanzitutto la visione universalistica del profeta Isaia (56,7) di un futuro,
in cui nella casa di Dio tutte le nazioni adorano il Signore come l’unico Dio. Nella struttura del tempio il
grandissimo cortile dei gentili, in cui la scena si svolge, è lo spazio aperto,
che invita tutto il mondo a pregarvi l’unico Dio. L’azione di Gesù sottolinea
questa apertura interiore dell’attesa, che nella fede di Israele era viva. Anche se Gesù limita il suo operare
consapevolmente a Israele, è tuttavia sempre mosso dalla tendenza
universalistica di aprire Israele in modo che tutti nel Dio di questo popolo
possano riconoscere l’unico Dio comune a tutto il mondo. Alla domanda che cosa Gesù abbia veramente portato agli uomini, nella Prima Parte
avevamo risposto che Egli ha portato Dio alle genti (cfr p. 67). Secondo la sua
parola, nella purificazione del tempio si tratta proprio di questa intenzione
fondamentale: togliere ciò che è contrario alla comune conoscenza ed adorazione
di Dio – aprire quindi lo spazio alla comune adorazione.
Nella stessa direzione orienta una
piccola vicenda che Giovanni riferisce circa la «Domenica delle Palme». Con
ciò, tuttavia, dobbiamo tener presente che, secondo Giovanni, la purificazione
del tem[28]pio si svolse durante la prima Pasqua di Gesù, all’inizio della sua
attività pubblica. I sinottici invece – come abbiamo già visto – raccontano
solo di un’unica Pasqua di Gesù e così la purificazione del tempio cade
necessariamente negli ultimi giorni di tutta la sua attività. Mentre fino a
poco tempo addietro l’esegesi partiva prevalentemente dalla tesi che la datazione
di san Giovanni fosse «teologica» e non esatta nel senso biografico-cronologico,
oggi si vedono sempre più chiaramente le ragioni che militano per una datazione
esatta anche dal punto di vista cronologico del quarto evangelista che,
nonostante tutta la penetrazione teologica della materia, qui come anche
altrove si rivela informato assai precisamente sui tempi, i luoghi e gli svolgimenti.
Ma non dobbiamo qui entrare in questa discussione, in definitiva secondaria. Fermiamoci semplicemente ad esaminare
quella piccola vicenda che, in Giovanni, non è connessa con la purificazione
del tempio, ma chiarisce ulteriormente il suo intrinseco significato.
L’evangelista riferisce che tra i
pellegrini c’erano anche alcuni Greci «che erano saliti per il culto durante la
festa» (Gv 12,20). Questi Greci si avvicinano a «Filippo, che era di Betsàida
di Galilea» e gli chiedono: «Signore, vogliamo vedere Gesù» (12,21). Nell’uomo
col nome greco proveniente dalla Galilea semi-pagana vedono ovviamente un
mediatore che può aprire loro l’accesso a Gesù. Questa parola dei Greci:
«Signore, vogliamo vedere Gesù», ci ricorda in qualche maniera la visione che
san Paolo ebbe del Macèdone, che gli disse: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (At
16,9). Il Van[29]gelo continua raccontando che Filippo ne parla ad Andrea e
tutti e due espongono la richiesta a Gesù. Come spesso accade nel Vangelo di
Giovanni, Gesù risponde in modo misterioso e, sul momento, enigmatico: «È venuta
l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico:
se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece
muore, produce molto frutto» (12,23s). Alla
richiesta di un incontro da parte di un gruppo di pellegrini greci, Gesù
risponde con una profezia della passione, in cui interpreta la sua morte
imminente come «glorificazione» – una glorificazione che si dimostra nella grande
fecondità. Che significa questo?
Non un incontro immediato ed esterno
tra Gesù e i Greci è ciò che conta. Ci sarà un altro incontro che andrà molto
più nel profondo. Sì, i Greci lo «vedranno»: verrà da loro attraverso la croce.
Egli verrà come chicco di grano morto e porterà frutto tra di loro. Essi
vedranno la sua «gloria»: nel Gesù crocifisso troveranno il vero Dio, di cui
nei loro miti e nella loro filosofia erano alla ricerca. L’universalità, di cui parla la profezia
di Isaia (cfr 56,7), viene messa nella luce della croce: a partire dalla croce, l’unico Dio si rende riconoscibile alle nazioni;
nel Figlio conosceranno il Padre e, in questo modo, l’unico Dio che si è
rivelato nel roveto ardente.
Ritorniamo alla purificazione del tempio.
Lì la promessa universalistica di Isaia è collegata con quella parola di
Geremia: Avete reso la mia casa un covo di ladri (cfr 7,11). Torneremo ancora
bre[30]vemente alla battaglia del profeta Geremia a riguardo ed in favore del
tempio nel contesto della spiegazione del discorso escatologico di Gesù.
Anticipiamo qui l’essenziale: Geremia
s’impegna appassionatamente per l’unità tra culto e vita nella giustizia
davanti a Dio; egli lotta contro una politicizzazione della fede, secondo la
quale Dio dovrebbe in ogni caso difendere il suo tempio per non perdere il
culto. Un tempio, però, che è diventato un «covo di ladri», non ha la
protezione di Dio.
Nella connessione tra culto e affari, che
Gesù combatte, Egli ovviamente vede nuovamente realizzata la situazione dei tempi
di Geremia. In questo senso, la sua parola come il suo gesto sono un
avvertimento nel quale, sulla base di Geremia, si poteva percepire anche
l’allusione alla distruzione di questo tempio. Ma come Geremia, così anche Gesù non è il distruttore del tempio: ambedue
indicano con la loro passione chi e che cosa distruggerà realmente il tempio.
Questa spiegazione della purificazione
del tempio diventa ancora più chiara alla luce di una parola di Gesù, che in
questo contesto è trasmessa solo da Giovanni, ma che in modo deformato si trova
anche sulle labbra di falsi testimoni durante il processo a Gesù, secondo la
relazione di Matteo e Marco. Non c’è dubbio che una tale parola risalga a Gesù
stesso ed è altrettanto ovvio che essa vada collocata nel contesto della purificazione
del tempio.
In Marco, il falso testimone dice di Gesù
che [31] Egli avrebbe dichiarato: «Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo,
e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo» (14,58). Il «testimone»,
con ciò, è forse molto vicino alla parola di Gesù, sbaglia però in un punto
decisivo: non è Gesù a distruggere il
tempio; lo abbandonano alla distruzione coloro che lo rendono un covo di ladri,
come era avvenuto ai tempi di Geremia.
In
Giovanni, la vera parola di Gesù suona così: «Distruggete questo tempio e in
tre giorni lo farò risorgere» (2,19).
Con questa parola Gesù rispondeva ad una richiesta da parte dell’autorità
giudaica di un segno col quale desse prova della sua legittimazione ad un atto
quale la purificazione del tempio. Il
suo «segno» è la croce e la risurrezione. La croce e la risurrezione lo
legittimano come Colui che instaura il culto giusto. Gesù si giustifica
mediante la sua passione – il segno di Giona, che Egli dà a Israele e al mondo.
Ma la parola va ancora più in profondità. A ragione Giovanni dice che i
discepoli compresero la parola in tutta la sua profondità solo facendone
memoria dopo la risurrezione – facendone memoria nella luce dello Spirito Santo
come comunità dei discepoli, come Chiesa. Il
rifiuto di Gesù, la sua crocifissione, significa allo stesso tempo la fine di
questo tempio. L’epoca del tempio è passata. Arriva un nuovo culto in un tempio
non costruito da uomini. Questo tempio è il suo corpo – il Risorto che raduna i
popoli e li unisce nel Sacramento del suo corpo e del suo sangue. Egli stesso è
il nuovo tempio dell’uma[32]nità. La crocifissione di Gesù è al contempo la
distruzione dell’antico tempio. Con la sua risurrezione inizia un nuovo modo di
venerare Dio, non più su questo o quell’altro monte, ma «in spirito e verità»
(Gv 4,23).
Come stanno allora le cose circa lo
«zēlos» di Gesù? Riguardo a questa domanda, Giovanni – proprio nel contesto
della purificazione del tempio – ci ha donato una parola preziosa che
costituisce una risposta precisa ed approfondita alla domanda stessa. Egli ci
dice che, in occasione della purificazione del tempio, i discepoli si
ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà» (2,17). È
questa una parola tratta dal grande Salmo 69 riguardante la passione. A causa della sua vita conforme alla parola
di Dio, l’orante è spinto nell’isolamento; la parola diventa per lui una fonte
di sofferenza recatagli da quelli che lo circondano e lo odiano. «Salvami,
o Dio, l’acqua mi giunge alla gola… Per te io sopporto l’insulto… mi divora lo
zelo per la tua casa…» (Sal 69,2.8.10).
Nel giusto sofferente il ricordo dei
discepoli ha riconosciuto Gesù: lo zelo
per la casa di Dio lo porta alla passione, alla croce. È questa la svolta
fondamentale che Gesù ha dato al tema dello zelo. Ha trasformato nello zelo
della croce lo «zelo» che voleva servire Dio mediante la violenza. Così Egli ha eretto
definitivamente il criterio per il vero zelo – lo zelo dell’amore che si dona.
Secondo questo zelo il cristiano deve orientarsi; in ciò sta la risposta
autentica alla questione circa lo «zelotismo» di Gesù.
Questa interpretazione trova la sua
conferma nuovamente nei due piccoli episodi con cui Matteo conclude il racconto
della purificazione del tempio.
«Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi,
ed egli li guarì» (21,14). Al commercio
di animali e agli affari col denaro Gesù contrappone la sua bontà risanatrice.
Essa è la vera purificazione del tempio. Gesù non viene come distruttore; non viene con la spada
del rivoluzionario. Viene col dono della guarigione. Si dedica a
coloro che a causa della loro infermità vengono spinti ai margini della propria
vita ed ai margini della società. Egli
mostra Dio come Colui che ama, e il suo potere come il potere dell’amore.
In piena
armonia con tutto ciò sta poi anche il comportamento dei fanciulli i quali
ripetono l’acclamazione dell’osanna che i grandi gli rifiutano (cfr Mt 21,15). Da questi «piccoli» Gli verrà sempre la lode (cfr Sal 8,3) – da coloro
che sono in grado di vedere con un cuore puro e semplice e che sono aperti alla
sua bontà. Così in queste due piccole vicende si preannunzia il nuovo
tempio che Egli è venuto a costruire. [34]
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