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L’apertura del cristiano al mondo, della quale oggi si sente tanto parlare, non può reperire il proprio modello altrove che nel fianco aperto del Signore

Testo di Joseph Ratzinger da Karl Rahner-Joseph Ratzinger, Settimana Santa, Queriniana, Brescia 2012, § Venerdì Santo, Seconda meditazione, pp 61-64.


Volgiamo ancora una volta il nostro sguardo al lato aperto del Cristo crocifisso, giacché questo sguardo costituisce il senso intimo del Venerdì santo che vuole riportare i nostri occhi via da tutte le attrazioni del mondo, dalla fata Morgana delle sue promesse in vetrina, al vero punto direzionale che unico ci può garantire il cammino [61] in mezzo al groviglio di viuzze che girano sempre attorno allo stesso posto.

Giovanni ha espresso in maniera ancora diversa, rispetto a quella precedentemente considerata, il pensiero che la chiesa deve la sua origine più profonda al fianco trafitto di Cristo. Egli accenna al fatto che dalla ferita del fianco sono usciti sangue ed acqua.

Sangue ed acqua stanno ad indicare per lui i due sacramenti fondamentali, battesimo ed eucaristia, che a loro volta costituiscono il contenuto autentico dell’esser-chiesa della chiesa.

Battesimo ed eucaristia sono i due modi in cui gli uomini possono essere inseriti nello spazio vitale di Gesù Cristo. Il battesimo sta a significare infatti che un uomo diventa cristiano e si pone sotto il nome di Gesù Cristo. E questo stare sotto un nome significa molto di più che un puro gioco di parole; ciò che sta a significare può essere visto un po’ attraverso l’evento del matrimonio e la comunità di nome che si istituisce tra due persone come espressione dell’unione vicendevole del loro essere, che avviene appunto nel matrimonio.

Il battesimo che, come attuazione sacramentale del divenire cristiani, ci unisce al nome di Cristo, sta a significare esattamente un evento simile al matrimonio: compenetrazione della nostra esistenza con la sua, inserimento della nostra vita nella sua, che diventa cosi criterio e spazio del mio essere umano.



L’Eucaristia è a sua volta comunione di mensa con il Signore che ci vuole trasformare in lui per condurci cosi l’uno verso l’altro, giacché tutti mangiamo Io stesso pane. Non siamo infatti noi ad assumere il corpo del Signore, ma e lui che ci cava, per [62] così dire fuori da noi stessi e ci inserisce in lui per farci chiesa.

Giovanni riconduce i due sacramenti alla croce; egli li vede defluire dal fianco aperto del Signore e considera quindi compiuta la parola del discorso di congedo: io vado e torno a voi. Proprio mentre me ne vado vengo a voi; anzi la mia dipartita – la morte sulla croce – è essa stessa il mio ritorno. Fin quando vivremo il nostro corpo non e soltanto il ponte che ci unisce vicendevolmente, ma anche la barriera che ci separa, ci rinchiude nell’inaccostabilità del nostro io dentro alla nostra forma spazio-temporale.
Il fianco aperto diventa nuovamente il simbolo della nuova apertura che il Signore viene a costituire mediante la sua morte: ormai la barriera del corpo non lo lega più, sangue ed acqua scorrono attraverso la storia. In quanto risorto egli è lo spazio aperto che ci chiama tutti. Il suo ritorno non è soltanto un avvenimento lontano, alla fine dei tempi, ma è iniziato già nell’ora della sua morte, a partire dalla quale egli viene sempre nuovamente in mezzo a noi.

Nella morte del Signore si è compiuto quindi il destino del seme di grano: nel pane di grano dell’eucaristia noi riceviamo l’inesauribile moltiplicazione di pane dell’amore di Gesù Cristo, sufficiente a saziare la fame di tutti i tempi e che proprio in questa maniera vuole assumere anche noi al servizio di questa moltiplicazione di pani. I due (sic) pani di orzo della nostra vita potranno apparire inutili, ma il Signore ha bisogno di essi e li esige.

I sacramenti della chiesa sono, come questa, tutto del seme di grano morente. Riceverli si[63]gnifica per noi donarci a quel movimento da cui essi provengono.

Si esige cioè da noi di penetrare in quel perdersi, senza del quale non ci possiamo ritrovare: «Chi vuole conservare la sua vita la deve perdere; ma chi la perderà per il mio nome e per il vangelo, la conserverà»; questa parola del Signore è la formula fondamentale della vita cristiana.

La fede in ultima analisi non è niente altro che il dire di sì a questa santa avventura del perdersi, e proprio qui, a partire dal suo nucleo profondo non è altro che amore autentico.

La fede cristiana riceve quindi la sua forma determinante dalla croce di Gesù Cristo e l’apertura del cristiano al mondo, della quale oggi si sente tanto parlare, non può reperire il proprio modello altrove che nel fianco aperto del Signore, espressione di quell'amore radicale che solo può redimere.

Dal corpo trafitto del crocifisso sono usciti sangue ed acqua. Ciò che in primo


luogo e segno della sua morte, espressione del suo fallimento nell’abisso della morte, è nello stesso tempo un nuovo inizio: il crocifisso risorgerà e non morrà più... Dalla profondità della morte si innalza la promessa della vita eterna. Sulla croce di Gesù Cristo brilla già sempre lo splendore vittorioso del mattino di Pasqua. Vivere con lui a partire dalla croce significa quindi sempre vivere anche sotto la promessa della gioia pasquale [64].

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