tratto da Joseph Ratzinger-Benedetto XVI,
Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in
Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 2011, pp. 309-324
Prospettive
È SALITO AL CIELO – SIEDE ALLA DESTRA DI DIO PADRE E DI NUOVO VERRÀ NELLA GLORIA
Pietro Perugino (1448-1523), L'Ascensione di Cristo, (1496-1500),
olio su tavola, Musée des Beaux-Arts, Lione
Tutti e quattro i Vangeli, come anche il rapporto di san Paolo
sulla risurrezione in 1 Corinzi 15, presuppongono che il periodo delle apparizioni del Risorto sia stato limitato nel tempo.
Paolo è consapevole che a lui, come ultimo, è stato concesso ancora un incontro
con il Cristo risorto. Anche il senso delle
apparizioni è chiaro in tutta la tradizione:
si tratta, innanzitutto, di raccogliere una
cerchia di discepoli che possano testimoniare che Gesù non è rimasto nel
sepolcro, ma che è vivo. La loro testimonianza concreta si traduce
essenzialmente in una missione: devono annunciare al mondo che Gesù è il
Vivente – la Vita stessa.
Hanno il compito
di tentare anzitutto ancora una volta di raccogliere Israele attorno al Gesù
risorto. Anche per Paolo
l’annuncio comincia sempre con la testimonianza davanti ai Giudei ai quali la
salvezza è destinata in primo luogo. Ma la destinazione ultima
degli inviati di Gesù è universale: «A me è stato dato ogni potere
in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,18s). «Mi sarete testimoni a
Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). «Va’, dice infine il Risorto a
Paolo, perché io ti manderò lontano, alle nazioni» (At 22,21). [309]
Fa
parte del messaggio dei testimoni anche l’annuncio che Gesù verrà di nuovo per
giudicare i vivi e i morti e per stabilire definitivamente il regno di Dio nel
mondo. Una grande corrente della teologia
moderna ha dichiarato questo annuncio il contenuto principale, se non
addirittura l’unico nucleo del messaggio. Così si asserisce che Gesù
stesso avrebbe già pensato esclusivamente in categorie escatologiche. L’«attesa
immediata» del regno sarebbe stata il vero elemento specifico del suo messaggio
e il primo annuncio apostolico non sarebbe stato diverso.
Se
questo fosse vero – ci si interroga – come avrebbe potuto persistere la fede
cristiana quando l’attesa immediata non si compì? Di fatto, una tale teoria è in contrasto con i testi come anche con
la realtà del cristianesimo nascente, che sperimentò la fede quale forza
operante nel presente e, insieme, quale speranza.
I discepoli hanno, certamente, parlato del ritorno di Gesù, ma soprattutto hanno testimoniato che Egli è Colui che ora vive, che è
la Vita stessa in virtù della quale anche noi diventiamo viventi
(cfr Gv 14,19).
Ma come si
realizza questo? Dove lo troviamo? Lui, il Risorto,
l’«Innalzato alla destra di Dio» (cfr At 2,33) non è forse, di conseguenza, del
tutto assente? O è invece in qualche modo raggiungibile? Possiamo noi
inoltrarci fino «alla destra del Padre»? Esiste, tuttavia, nell’assenza anche
una reale presenza? Non viene forse a noi solo in un ultimo giorno non noto? Può venire anche oggi? [310]
Queste
domande caratterizzano il Vangelo di
Giovanni, e anche le Lettere di san
Paolo offrono ad esse una risposta. L’essenziale di tale risposta è però tracciato anche nei
racconti sull’«ascensione» con cui si conclude il Vangelo di Luca e cominciano gli Atti degli Apostoli.
Volgiamoci
dunque alla conclusione del Vangelo di
Luca. Lì si racconta come Gesù appare agli apostoli che, insieme ai due
discepoli di Emmaus, sono radunati a Gerusalemme. Egli mangia con loro e dà
alcune istruzioni. Le ultime frasi del Vangelo dicono: «Poi li condusse fuori
verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò
da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui;
poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio
lodando Dio» (24,50-53).
Questa
conclusione ci stupisce. Luca ci dice che i
discepoli erano pieni di gioia dopo che il Signore si era allontanato
definitivamente da loro. Noi ci aspetteremmo il contrario. Ci aspetteremmo che
essi fossero rimasti sconcertati e tristi. Il mondo non era cambiato, Gesù si
era definitivamente allontanato da loro. Avevano ricevuto un compito
apparentemente irrealizzabile, un compito che andava al di là delle loro forze.
Come potevano presentarsi davanti alla gente in Gerusalemme, in Israele, in
tutto il mondo e dire: «Quel Gesù, apparentemente fallito, è invece il
Salvatore di tutti noi»? Ogni addio lascia dietro di sé un dolore. Anche se
Gesù era partito da Persona vivente, come poteva non renderli tristi il suo
congedo defi[311]nitivo? Eppure si legge che essi tornarono a Gerusalemme con
grande gioia e lodavano Dio. Come possiamo noi capire tutto questo?
Ciò
che in ogni caso si può dedurne è che i discepoli non si sentono abbandonati;
non ritengono che Gesù si sia come dileguato in un cielo inaccessibile e
lontano da loro. Evidentemente sono certi di una presenza nuova di Gesù. Sono
sicuri che il Risorto (come, secondo Matteo, Egli aveva anche detto) proprio
ora è presente in mezzo a loro in una maniera nuova e potente. Essi sanno che «la
destra di Dio», alla quale Egli ora è «innalzato», implica un nuovo modo della
sua presenza, che non si può più perdere – il modo, appunto, in cui
solo Dio può esserci vicino.
La gioia dei
discepoli dopo l’«ascensione» corregge la nostra immagine di tale evento. L’«ascensione» non è un
andarsene in una zona lontana del cosmo, ma è la vicinanza permanente che i
discepoli sperimentano in modo così forte da trarne una gioia durevole.
Così la conclusione del Vangelo di Luca ci aiuta a comprendere
meglio l’inizio degli Atti degli Apostoli
in cui l’«ascensione» di Gesù viene narrata esplicitamente. La dipartita di Gesù è qui preceduta da
un colloquio in cui i discepoli –
ancora rinchiusi nelle loro vecchie idee – domandano
se non sia giunto adesso il momento di stabilire il regno di Israele.
A
questa idea di un rinnovato regno davidico Gesù contrappone una
promessa ed un incarico. La promessa è che essi saranno colmati della forza
[312] dello Spirito Santo; l’incarico consiste nel fatto
che dovranno essere i suoi testimoni fino ai confini del mondo.
Viene
respinta esplicitamente la domanda circa i tempi e i momenti. L’atteggiamento dei discepoli non deve
essere né di speculare sulla storia né di proiettare lo sguardo verso
l’avvenire ignoto. Il
cristianesimo è presenza: dono e compito; essere gratificati dalla vicinanza
interiore di Dio e – in base a ciò – essere attivi nella testimonianza in
favore di Gesù Cristo.
In questo
contesto si pone poi l’annotazione circa la nube che lo accoglie e lo sottrae
ai loro occhi. La nube
ci ricorda il momento della trasfigurazione in cui una nube luminosa si posa su
Gesù e sui discepoli (cfr Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,34s). Ci ricorda l’ora
dell’incontro tra Maria e il messaggero di Dio, Gabriele, il quale le annuncia
che la potenza dell’Altissimo l’avrebbe «coperta con la sua ombra» (cfr Lc 1,35). Ci ricorda la sacra tenda di
Dio nell’antica alleanza, in cui la nube è il segno della presenza di YHWH (cfr
Es 40,34s) che, anche durante il pellegrinaggio nel deserto, precede Israele
come nube (cfr Es 13,21s). Il discorso sulla nube è chiaramente un discorso teologico.
Presenta lo scomparire di Gesù non come un viaggio verso le stelle, ma come
l’entrare nel mistero di Dio. Con ciò si accenna ad un ordine di grandezza
completamente diverso, ad un’altra dimensione dell’essere.
Il
Nuovo Testamento – dagli Atti degli
Apostoli fino alla Lettera agli Ebrei
– facendo riferimento al Salmo 110,1
descrive il «luogo» in cui Gesù è an[313]dato con la nube come un sedere (o stare) alla destra di
Dio. Che significa questo? Con ciò non si
allude ad uno spazio cosmico lontano in cui Dio, per così dire, avrebbe eretto
il suo trono e su di esso avrebbe dato un posto anche a Gesù.
Dio non si trova in uno spazio accanto ad altri spazi.
Dio è Dio – Egli è il presupposto e il fondamento di ogni spazialità esistente,
ma non ne fa parte. Il rapporto di Dio con tutti gli spazi è quello del Signore
e del Creatore. La sua presenza non è spaziale ma, appunto, divina. «Sedere
alla destra di Dio» significa una partecipazione alla sovranità propria di Dio
su ogni spazio.
In
una disputa con i farisei, Gesù stesso dà al Salmo 110 una nuova interpretazione che ha orientato la
comprensione dei cristiani. All’idea del Messia quale nuovo Davide con un nuovo
regno davidico – idea che poco fa abbiamo incontrato nei discepoli – Egli
contrappone una visione più grande di Colui che deve venire: il vero Messia non
è figlio di Davide, ma Signore di Davide; non siede sul trono di Davide, ma sul
trono di Dio (cfr Mt 22,41-45).
Il Gesù che si congeda non va da qualche parte su un
astro lontano. Egli entra nella comunione di vita e di potere con il Dio
vivente, nella situazione di superiorità di Dio su ogni spazialità. Per questo
non è «andato via», ma, in virtù dello stesso potere di Dio, è ora sempre
presente accanto a noi e per noi.
Nei discorsi di addio nel Vangelo di
Giovanni, Gesù dice proprio questo ai suoi discepoli: «Vado e vengo a voi»
(14,28).
Qui
è meravigliosamente sintetizzata la peculiarità
dell’«andare via» [314] di Gesù, che al contempo
è il suo «venire», e con ciò è anche spiegato il mistero riguardante
la croce, la risurrezione e l’ascensione. Il suo andarsene è
proprio così un venire, un nuovo modo di vicinanza, di presenza permanente
con la quale anche Giovanni connette la «gioia» di cui sopra abbiamo sentito
parlare nel Vangelo di Luca.
Siccome Gesù è presso il Padre, Egli non è lontano, ma è
vicino a noi. Ora non si trova più in un singolo posto del mondo come prima
dell’«ascensione»; ora, nel suo potere che supera ogni spazialità, Egli è
presente accanto a tutti ed invocabile da parte di tutti – attraverso tutta la
storia – e in tutti i luoghi.
C’è
nel Vangelo un piccolo racconto molto bello (cfr Mc 6,45-52 par.), in cui Gesù
anticipa durante la sua vita terrena questo modo di vicinanza, e lo rende così
più facilmente comprensibile per noi. Dopo la moltiplicazione dei pani, il
Signore ordina ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull’altra
riva, verso Betsàida, mentre Egli stesso licenzierà la folla. Poi Egli si
ritira «sul monte» a pregare. I discepoli sono quindi soli sulla barca. C’è il
vento contrario, il mare è mosso. Sono minacciati dall’impeto delle onde e
della tempesta. Il
Signore sembra essere lontano, in preghiera sul suo monte. Ma siccome è presso
il Padre, Egli li vede. E perché li vede, viene da loro camminando sul mare,
sale sulla barca con loro e rende possibile la traversata fino alla meta.
È questa un’immagine per il tempo della Chiesa –
destinata proprio anche a noi. Il Signore è [315] «sul
monte» del Padre. Per questo Egli ci vede. Per questo può in ogni momento
salire sulla barca della nostra vita. Per questo possiamo sempre invocarlo e
sempre essere sicuri che Egli ci vede e ci sente. Anche oggi la barca della
Chiesa, col vento contrario della storia, naviga attraverso l’oceano agitato
del tempo. Spesso si ha l’impressione che debba affondare. Ma il Signore è
presente e viene nel momento opportuno. «Vado e vengo a voi» – è questa la
fiducia dei cristiani, la ragione della nostra gioia.
Da
un lato totalmente diverso, qualcosa di simile si rende visibile nel racconto teologicamente ed
antropologicamente molto denso della
prima apparizione del Risorto a Maria di Màgdala. Vorrei qui raccoglierne
soltanto un particolare.
Dopo
le parole dei due angeli in bianche vesti, Maria si è volta indietro e ha visto
Gesù, ma non l’ha riconosciuto. Ora Egli la chiama per nome: «Maria!». Lei deve
girarsi un’altra volta e adesso riconosce gioiosamente il Risorto, che
qualifica «Rabbunì», il suo Maestro.
Vuole toccarlo, trattenerlo, ma il Signore le dice: «Non mi trattenere, perché
non sono ancora salito al Padre» (Gv
20,17). Questo ci sorprende. Vorremmo dire: proprio ora che le sta davanti, lei
può toccarlo, trattenerlo. Quando sarà salito al Padre, ciò non sarà più
possibile. Ma il Signore dice il
contrario: ora non può toccarlo, trattenerlo. Il rapporto precedente col Gesù
terreno non è ormai più possibile. Si tratta qui della stessa esperienza a
cui Paolo allude in 2 Corinzi 5,16s:
«Anche se abbiamo co[316]nosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo
conosciamo più così. Se uno è in Cristo, è una creatura nuova». Il vecchio modo
dell’umano stare insieme ed incontrarsi è superato. Ora si può toccare Gesù
ormai soltanto «presso il Padre». Si può toccarlo soltanto salendo. A partire
dal Padre, nella comunione col Padre, Egli ci è accessibile e vicino in maniera
nuova.
Questa
nuova accessibilità presuppone anche una novità da parte
nostra: mediante il battesimo, la nostra vita è ormai nascosta con
Cristo in Dio; nella nostra vera esistenza siamo già «lassù», presso di Lui,
alla destra del Padre (cfr Col 3,1ss). Se ci inoltriamo nell’essenza della nostra esistenza cristiana, allora
tocchiamo il Risorto: lì siamo pienamente noi stessi. Il toccare Cristo e il
salire sono intrinsecamente collegati. E ricordiamoci che, secondo
Giovanni, il luogo dell’«elevazione» di Cristo è
la sua croce e che la nostra «ascensione» che è sempre nuovamente necessaria,
il nostro salire per toccarlo, deve essere un camminare insieme con il
Crocifisso.
Il Cristo presso
il Padre non è lontano da noi, semmai siamo noi ad essere lontani da Lui; ma la
via tra Lui e noi è aperta.
Non è un percorso di carattere cosmico-geografico di cui qui si tratta, ma è la
«navigazione spaziale» del cuore che conduce dalla dimensione della chiusura in
se stessi alla dimensione nuova dell’amore divino che abbraccia l’universo.
Ritorniamo
ancora al primo capitolo degli Atti degli
Apostoli. Abbiamo detto che il contenuto [317] dell’esistenza
cristiana non è lo scrutare il futuro, ma, da un lato, il dono dello Spirito
Santo e, dall’altro, la testimonianza universale dei discepoli in favore di
Gesù crocifisso e risorto (cfr At
1,6-8). E la scomparsa di Gesù mediante la nube non significa un movimento
verso un altro luogo cosmico, ma la sua assunzione nell’essere stesso di Dio e
così la partecipazione al suo potere di presenza nel mondo.
Poi
il testo continua. Come prima presso il sepolcro (cfr Lc 24,4), appaiono anche ora due uomini in vesti bianche e
rivolgono un messaggio: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?
Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso
modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At
1,11). Con ciò viene ancora una volta confermata la fede nel ritorno di Gesù,
ma al tempo stesso viene sottolineato che non è compito dei discepoli
guardare il cielo o conoscere i tempi e i momenti nascosti nel segreto di Dio.
Il loro compito è ora di portare la testimonianza di Cristo fino ai confini
della terra.
La fede nel ritorno di Cristo è il secondo pilastro della
professione cristiana. Egli che si è fatto carne e
ora rimane per sempre Uomo,
che per sempre ha inaugurato in Dio la sfera dell’essere umano – chiama tutto il
mondo ad entrare nelle braccia aperte di Dio, affinché alla fine Dio
diventi tutto in tutti e il Figlio possa consegnare al Padre l’intero mondo
raccolto in Lui (cfr 1 Cor 15,20-28).
Questo implica la certezza nella speranza che Dio asciugherà ogni lacrima, non
rimarrà niente che sia privo di senso, ogni ingiustizia sarà superata e [318] stabilita la
giustizia. La vittoria dell’amore
sarà l’ultima parola della storia del mondo.
Per il «tempo intermedio» ai cristiani è richiesta, come
atteggiamento di fondo, la vigilanza. Questa vigilanza significa, da una parte,
che l’uomo non si rinchiuda nel momento
presente dandosi alle cose tangibili, ma alzi lo sguardo al di là del
momentaneo e della sua urgenza. Ciò che conta è tenere
libera la visione su Dio, per ricevere da Lui il criterio e la capacità di
agire in modo giusto.
Vigilanza significa soprattutto apertura al bene, alla verità,
a Dio, in mezzo a un
mondo spesso inspiegabile e in mezzo al potere del male. Significa che l’uomo cerchi con tutte le forze
e con grande sobrietà di fare la cosa giusta, non vivendo secondo i propri
desideri, ma secondo l’orientamento della fede. Tutto ciò è
illustrato nelle parabole escatologiche di Gesù, particolarmente in quella del
servo vigilante (cfr Lc 12,42-48) e,
in altro modo, in quella delle vergini stolte e delle vergini sagge (cfr Mt 25,1-13).
Ma, riguardo all’attesa del ritorno del Signore, come
stanno le cose nell’esistenza cristiana? Lo aspettiamo volentieri, oppure no? Già Cipriano di Cartagine († 258) doveva
esortare i suoi lettori a non tralasciare la preghiera per il ritorno di Cristo
a motivo della paura di grandi catastrofi o per la paura della morte. Dovrebbe forse il mondo che sta declinando
esserci più caro del Signore che tuttavia aspettiamo?
L’Apocalisse si chiude con la promessa del
ritorno del Signore e con la preghiera che essa si rea[319]lizzi: «Colui che attesta queste cose dice: “Sì,
vengo presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù!» (22,20). È la preghiera della
persona innamorata, che nella città assediata è oppressa da tutte le minacce e
dagli orrori della distruzione e non può che aspettare l’arrivo dell’Amato che
ha il potere di rompere l’assedio e di portare la salvezza. È il grido pieno di speranza che anela la vicinanza di
Gesù in una situazione di pericolo in cui solo Lui può aiutare.
Paolo
pone alla fine della Prima Lettera ai
Corinzi la stessa preghiera secondo la formulazione aramaica che, però, può
essere divisa e quindi anche compresa in modi differenti: «Marana tha» («Vieni,
Signore») o «Maran atha» («Il Signore è venuto»). In questa duplicità del modo
di lettura è chiaramente visibile la peculiarità dell’attesa cristiana della
venuta di Gesù. È al tempo stesso il grido: «Vieni!» e la certezza piena di
gratitudine: «Egli è venuto».
Dalla
Didachē (intorno all’anno 100) sappiamo
che questo grido faceva parte delle preghiere liturgiche della Celebrazione
eucaristica dei primi cristiani, e qui si ha anche in concreto l’unità dei due modi
di lettura. I cristiani invocano la venuta
definitiva di Gesù e vedono al contempo con gioia e gratitudine che Egli già ora
anticipa questa sua venuta, già ora entra in mezzo a noi.
Nella preghiera cristiana per il ritorno di Gesù è sempre
contenuta anche l’esperienza della presenza. Questa preghiera è mai riferita
solamente al futuro.
Vale, appunto, ciò che il Risorto ha detto: «Io sono con voi tutti i giorni,
fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Egli è adesso presso
di noi, in [320] modo particolarmente denso nella presenza eucaristica.
Ma, inversamente, anche l’esperienza cristiana della presenza porta in sé la
tensione verso il futuro, verso la presenza definitivamente compiuta: la presenza
non è completa. Essa spinge al di là di se stessa. Ci mette in cammino verso la
definitività.
Mi
sembra opportuno illustrare ancora mediante due espressioni diverse della
teologia questa
tensione intrinseca dell’attesa cristiana del ritorno – attesa che
deve caratterizzare la vita e la preghiera cristiana. Il breviario romano,
nella prima domenica di Avvento, propone agli oranti una catechesi di Cirillo
di Gerusalemme (Cat. XV,1-3: PG
33,870-874), che comincia con le parole: «Noi annunziamo che Cristo verrà.
Infatti non è unica la sua venuta, ma ve n’è una seconda… Quasi sempre nel
nostro Signore Gesù Cristo ogni evento è duplice. Duplice è la generazione, una
volta da Dio Padre, prima del tempo, e l’altra, la nascita umana da una vergine
nella pienezza dei tempi. Due sono anche le sue discese nella storia. Una prima
volta è venuto in modo oscuro e silenzioso… una seconda volta verrà nel futuro…
davanti agli occhi di tutti». Questo
discorso sulla duplice venuta di Cristo ha dato un’impronta alla cristianità e
fa parte del nucleo dell’annuncio dell’Avvento. Esso è corretto, ma
insufficiente.
Alcuni
giorni dopo, il mercoledì della prima settimana di Avvento, il breviario offre
un’interpretazione tratta dalle omelie di Avvento di san Bernardo di Chiaravalle,
in cui viene espressa una [321] visione integrativa. Vi si legge: «Conosciamo una
triplice venuta del Signore… la terza è in mezzo tra le altre [adventus medius]… Nella prima venuta egli venne nella carne e nella debolezza; in questa
intermedia viene nello spirito e nella potenza; nell’ultima verrà nella gloria
e nella maestà» (In Adventu Domini,
serm. III,4. V,1: PL 183, 45 A. 50 C-D). Per questa sua tesi, Bernardo si
riferisce a Giovanni 14,23: «Se uno
mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui».
Si
parla esplicitamente di una «venuta» del Padre e del Figlio: è l’escatologia del
presente, sviluppata da Giovanni. Essa non abbandona l’attesa della venuta
definitiva che cambierà il mondo, mostra però che il tempo intermedio non è
vuoto: in esso, appunto, c’è l’adventus
medius, la venuta intermedia di cui parla Bernardo. Questa
presenza anticipatrice fa senz’altro parte dell’escatologia cristiana,
dell’esistenza cristiana.
Anche
se l’espressione adventus medius
prima di Bernardo era ignota, il contenuto è presente fin dal principio in
varie forme nell’intera tradizione cristiana. Ricordiamo ad esempio che
sant’Agostino, nelle nubi sulle quali arriva il Giudice universale, vede la
parola dell’annuncio: le parole del messaggio trasmesse dai testimoni sono la
nube che porta Cristo nel mondo – già ora. E così il mondo viene preparato per
la venuta definitiva. I modi di questa
«venuta intermedia» sono molteplici: il Signore viene mediante la sua parola;
viene nei sacramenti, specialmente nella santissima Eucaristia; entra nella mia
vita mediante parole o avvenimenti. [322]
Esistono,
però, anche modi epocali di tale venuta.
L’operare delle due grandi figure – Francesco e Domenico – tra il XII e il XIII
secolo è stato un modo in cui Cristo è entrato nuovamente nella storia, facendo
valere in modo nuovo la sua parola e il suo amore; un modo in cui Egli ha
rinnovato la Chiesa e mosso la storia verso di sé. Una cosa analoga possiamo dire delle figure dei santi del XVI secolo:
Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio
portano con sé nuove irruzioni del Signore nella storia confusa del loro secolo
che andava alla deriva allontanandosi da Lui. Il suo mistero, la sua figura
appare nuovamente – e soprattutto: la sua forza, che trasforma gli uomini e
plasma la storia, si rende presente in modo nuovo.
Possiamo dunque pregare per la venuta di Gesù? Possiamo
dire con sincerità: «Marana tha! – Vieni, Signore Gesù!»? Sì, lo possiamo. Non
solo: lo dobbiamo! Chiediamo anticipazioni della sua presenza rinnovatrice del
mondo. In momenti di tribolazione personale lo preghiamo: Vieni, Signore Gesù,
e accogli la mia vita nella presenza del tuo potere benigno. Gli chiediamo di
rendersi vicino a persone che amiamo o per le quali siamo preoccupati. Lo
preghiamo di rendersi efficacemente presente nella sua Chiesa.
E
perché non chiedere a Lui di donarci anche oggi testimoni nuovi della sua
presenza nei quali Egli stesso s’avvicini a noi? E questa
preghiera, che non mira immediatamente alla fine del mondo, ma è una vera preghiera per la sua venuta, porta in sé
tutta l’ampiezza di quella preghiera [323] che Egli
stesso ci ha insegnato: «Venga il tuo regno!» Vieni, Signore Gesù!
Ritorniamo
ancora una volta alla conclusione del Vangelo
di Luca. Gesù condusse i suoi vicino a Betània, ci viene detto. «Alzate le
mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato
su, in cielo» (24,50s). Gesù parte
benedicendo. Benedicendo se ne va e nella
benedizione Egli rimane. Le sue mani restano stese su questo mondo. Le mani benedicenti di Cristo
sono come un tetto che ci protegge. Ma sono al contempo un gesto di apertura
che squarcia il mondo affinché il cielo penetri in esso e possa diventarvi una
presenza.
Nel gesto delle mani benedicenti si esprime il rapporto
duraturo di Gesù con i suoi discepoli, con il mondo. Nell’andarsene Egli viene
per sollevarci al di sopra di noi stessi ed aprire il mondo a Dio. Per questo i
discepoli poterono gioire, quando da Betània tornarono a casa. Nella fede sappiamo che Gesù,
benedicendo, tiene le sue mani stese su di noi. È questa la ragione permanente
della gioia cristiana. [324]
Meraviglioso molte grazie Papa!
RispondiEliminaCon tanto affetto e ammirazione infinita
Roberto Cattaneo
Sì, è davvero un testo stupendo!
RispondiElimina