tratto
da Joseph Ratzinger, Chi ci aiuta a vivere? Su Dio e l’uomo,
Queriniana, Brescia 2006, parte 4. -
Celebrare la fede, § 11. Che cosa celebriamo la domenica?, pp. 130-138.
Pubblicato originariamente in Internationale
katholische Zeitschrift Communio. 11. Jahrgang (1982), Johannes Verlag,
Einsiedeln - Freiburg 1982, pp. 226-231 [trad. di Gianni Francesconi].
11.Che
cosa celebriamo la domenica?
Era
all’incirca l’anno 110 d.C. Ignazio, vescovo di Antiochia, veniva portato via
nave dalla Siria a Roma per essere lì gettato in [130] pasto alla fiere
selvagge. Durante questo viaggio, con le mani in catene, egli scrisse sette
lettere alle comunità cristiane che si trovavano lungo il suo itinerario. In
una di queste lettere si trova la frase: «Noi non celebriamo più il sabato,
bensì viviamo osservando il giorno del Signore (la domenica), nel quale è sorta
anche la nostra vita…» (Magn. 9, 1).
I cristiani
vengono qui descritti formalmente come le persone che vivono secondo la domenica.
L’osservare la domenica determina il loro ritmo di vita, caratterizza la loro
intima forma di vita. Di domenica è sorta la loro vita; la domenica è per essi,
per così dire, il luogo nella trama del tempo in cui si giunge alla vita
stessa, si sperimenta che cosa significhi realmente vita.
Questa
esperienza della vita autentica continua poi anche lungo la settimana. Essa
resta, per così dire, la tonalità fondamentale che persiste nel rumore della settimana
e la cui eco permette di ritrovare sempre di nuovo la via verso l’aperto, verso
la luce.
I cristiani sono
la gente della domenica,
dice Ignazio. Che
cosa significa? Prima di chiederci come si fa a ‘osservare la
domenica’, dobbiamo riflettere su che
cosa noi, in quanto cristiani, celebriamo propriamente la domenica. Il fondamento
autentico e primo per la celebrazione della domenica sta nel fatto che in questo
giorno Cristo è risorto dai morti. Con ciò egli ha dato inizio a un
tempo nuovo: per la prima volta uno è ritornato dai morti e non muore più. Per
la prima volta uno ha spalancato il carcere del tempo che ci tiene tutti
prigionieri. Ma Gesù non è fuggito nell’eternità. Egli non si è lasciato
semplicemente alle spalle il tempo, come un vestito dismesso, ma egli rimane
con noi. Egli è ritornato e non va più via.
La celebrazione
della domenica è, di conseguenza, soprattutto una professione di fede nella
risurrezione. È una professione di fede nel fatto che Gesù vive. Essa è così anche una
confessione che Dio vive e dona all’uomo vita oltre la morte. Essa è una
confessione che noi abbiamo qualcosa in cui sperare. Essa è una confessione che
l’amore rimane, e perciò è una professione di fede che vivere è un bene.
[131]
Molto
presto i cristiani si sono chiesti: perché il Signore ha scelto proprio questo
giorno? Che cosa egli ha così voluto dire? Secondo il computo ebraico del
tempo, la domenica era il primo giorno della settimana. Era dunque il giorno
della creazione del mondo. Era il giorno in cui Dio era uscito dalla sua quiete
e aveva detto: «Sia la luce!» (Gen 1,3). La risurrezione di Gesù Cristo non significa però la ripresa
della creazione, ma la sua definitiva conferma. Infatti, risurrezione significa
proprio che il mondo materiale non scomparirà più. Nella
risurrezione di Cristo esso è inserito nel mistero di Dio stesso. La
risurrezione è la conferma definitiva della parola con cui il racconto della
creazione dell’Antico Testamento si conclude: «Dio vide quanto aveva fatto, ed
ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). Risurrezione significa che Dio pronuncia definitivamente il
suo ‘sì’ nei confronti della creazione. Egli lo dice, assumendola in
se stesso e perciò trasformandola, oltre ogni caducità, in ciò che permane.
La domenica è il
primo giorno della settimana, il giorno della creazione. Ciò significa dunque:
la domenica è anche il giorno del grazie per la creazione. Questo ha acquistato un significato
particolare proprio nel nostro mondo tecnico. La creazione ci è stata
consegnata da Dio come nostro spazio di vita, come spazio del nostro lavoro e
del nostro tempo libero, spazio in cui troviamo ciò che è necessario alla vita
e il superfluo, la bellezza delle immagini e dei suoni, di cui l’uomo ha
bisogno tanto quanto del nutrimento e del vestito. «Assoggettate la terra», ha
detto Dio all’uomo (Gen 1,28). Questo, però, non significa: sfruttatela! Fatele
violenza! Significa invece: abbiatene cura! Imprimete in essa il volto dello
spirito! Sviluppate ciò che c’è in essa! Allora essa sarà al vostro servizio e
la sua specifica destinazione troverà compimento. La parola ‘cultura’ viene dalla stessa radice della parola culto.
Include sia il senso del prendersi cura come quello del venerare, del profondo
rispetto. Significa aver cura delle cose così da rendere onore in esse alla
creazione di Dio e adorare in tal modo Dio stesso. [132]
Ogni domenica,
perciò, è una festa della creazione.
Essa è sempre anche una professione del primo articolo di fede: io credo in
Dio, creatore del cielo e della terra. Ci vuole ricordare che noi, prima del nostro fare, già
riceviamo in dono la creazione. Essa vuol risvegliare in noi il
sentimento della riconoscenza e del rispetto. Vivere secondo la domenica
significa dunque anche organizzare il lavoro nel mondo secondo questi
sentimenti e secondo questo orientamento fondamentale. Ciò significa
disponibilità alla moderazione nell’utilizzare la creazione: dobbiamo usarne,
ma non abusarne. Non serve a nulla incominciare improvvisamente a protestare,
in qualche posto, contro nuove imprese. Questo resta illogico e insensato, se
non ci convertiamo dall’abusare all’usare, dallo sfruttare all’avere cura.
Vivere
secondo la domenica significa essere in cammino verso questa consapevolezza;
significa realmente tutto uno stile di vita, che noi, proprio in quanto
cristiani, dobbiamo in questo tempo cercare con nuova risolutezza… Abbiamo
finora detto: la domenica è il giorno della risurrezione di Gesù Cristo. Essa è
come il primo giorno della creazione. Da un altro punto di vista, si poteva
anche dire: dopo il settimo giorno, il sabato, essa è l’ottavo giorno. È il
giorno che sta dopo la settimana del tempo della creazione; il giorno che ci
rinvia, oltre il nostro tempo, al mondo nuovo.
Il
numero otto è diventato per i cristiani simbolo del mondo futuro. Essi hanno
costruito, per esempio, i battisteri nella forma dell’ottagono per indicare che
qui avviene la nascita al mondo nuovo, incominciato con la risurrezione di
Cristo. Così, con la domenica celebriamo
anche la nostra fede nel ritorno del Signore. Essa non è solo un giorno del
grazie e del volgersi indietro, ma soprattutto anche un giorno di speranza: di
apertura sul futuro. Nella celebrazione dell’eucaristia inizia per noi già sempre
il ritorno di Cristo: il Signore viene incontro a noi attraverso le porte
chiuse della nostra angoscia, come un tempo, il mattino di pasqua, si fece
incontro ai discepoli (Gv 20,19).
Il cristianesimo non è una [133] religione del passato,
ma in quanto cristiani abbiamo ciò che è decisivo ancora davanti a noi. Il
Signore viene e noi andiamo incontro a lui. Abbiamo qualcosa in cui sperare: il
regno di Cristo, il regno di Dio. Possiamo guardare al futuro pieni di fiducia;
esso sarà più grande del passato. Ma possiamo allora aver fiducia, soltanto se
andiamo con Cristo. E costruiamo veramente, solo se costruiamo con lui. Essere
cristiani significa vivere in modo da essere in cammino verso Cristo. Solo così
andiamo realmente avanti.
Mentre
i cristiani non hanno escogitato alcun nome per gli altri giorni della
settimana, limitandosi a enumerarli semplicemente in successione, essi hanno
dato a questo giorno un nome nuovo: giorno del Signore. Così si chiama ancor
oggi nelle lingue di origine latina e nelle lingue slave. Nelle lingue
germaniche si è conservata l’antica denominazione, giorno del sole, perché
Cristo è il sole che sorge. Lui videro i cristiani dietro la parola della
creazione: «Sia la luce»; lui hanno atteso come la luce definitiva, che sorge
dalla notte della morte per un giorno che non conosce più sera, perché il vero
sole – l’amore – non tramonta mai.
Come
celebriamo la domenica?
Innanzitutto,
da quanto abbiamo finora detto è emerso chiaro che la domenica non è un giorno libero a piacere,
che si possa collocare come si vuole nella settimana. In quanto
giorno della risurrezione di Gesù Cristo, in quanto il primo e al tempo stesso
l’ottavo giorno, che ha assunto in sé anche il sabato e così l’unità di
creazione e alleanza, esso ci precede: ci è dato come segno del Creatore e del Salvatore, del grazie
e della speranza nel ritmo del nostro tempo, un segno che non abbiamo
escogitato noi, ma che riceviamo come anticipo per il nostro rapporto con il
tempo.
In quanto giorno della
partecipazione al riposo di
[134] Dio e quale giorno della venuta
del Risorto che raccoglie i suoi discepoli, fuggiti nel privato, per
spezzare con loro il pane, questo è il giorno della liturgia, che, a sua volta, non
siamo stati noi a inventare: il primo giorno è, per così dire, la
finestra che il Signore ha aperto, con la sua risurrezione, nel muro del tempo.
Nel ritmo del tempo esso è l’ora del suo ritorno e questo venire di Cristo a
noi significa: essere una cosa sola nello spezzare il pane, in cui egli
veramente viene incontro a noi, si fa veramente presente con noi e in noi.
Perciò,
il precetto della domenica non è una trovata arbitraria della chiesa. Il
precetto esprime soltanto in forma giuridica ciò che per la chiesa è stato
presente fin dall’inizio, a partire dagli apostoli, come realtà di fatto, nel
suo dar risposta all’evento del primo giorno. Così, gli Atti degli Apostoli ci
riferiscono che Paolo, a Troade, la domenica ha celebrato l’eucaristia (20,6-11);
la celebrazione domenicale dell’eucaristia viene qui presupposta già come
impegno stabile della cristianità.
Dalla
prima lettera ai Corinzi di Paolo sappiamo che la domenica era il giorno della
colletta per la chiesa di Gerusalemme (1Cor 16,1s.); così appare già anche il nesso tra liturgia e caritas, tra essere liberi per Dio e diventar liberi per l’uomo.
Giovanni,
nell’Apocalisse, colloca la sua prima visione espressamente nel giorno del
Signore (Ap 1,10): in questo modo il Signore rende partecipe, per così dire,
lui che è in esilio, che è privato della comunione eucaristica della chiesa,
alla liturgia comune, alla sua presenza pasquale.
La
cosiddetta Dottrina degli apostoli, un libro apparso all’incirca tra il 90 e il
100, dice, a partire da una tradizione da tempo consolidata: «Nel giorno del
Signore però vi riunite, spezzate il pane e rendete grazie, dopo aver prima
confessato i vostri peccati affinché la vostra offerta sia pura» (Did. 14, 1).
Riteniamo dunque
fermamente: non dipende dalla chiesa o dal singolo cristiano se e quando
celebrare la liturgia, e che cosa fare della domenica. La domenica è la
risposta della chiesa a ciò che il Signore ha fatto e fa: egli ha fatto di
questo [135]
giorno il suo giorno e il nostro giorno, il giorno della riunione
comune con lui nella liturgia della chiesa.
Con
ciò sì è già dato risposta anche ad alcune altre domande.
Uno potrebbe dire: io non sopporto l’aria cattiva degli
edifici ecclesiastici e i canti noiosi. Mi disturba inginocchiarmi stretto tra gente d’ogni tipo
che io non conosco e ascoltare un parroco che recita preghiere che io non
capisco. Preferisco andare in montagna, nel bosco, al mare e mi sento più
religioso immerso nella libera natura di Dio piuttosto che in una assemblea che
non mi dice nulla.
A
questo occorre rispondere: non possiamo scegliere
noi se e come vogliamo onorare Dio; ciò che conta è che noi rispondiamo a lui
là dove egli si dà a noi. Non
possiamo stabilire di nostra iniziativa dove Dio debba incontrarci e non
possiamo arrivare fino a lui da noi stessi, per nostra volontà. Egli può venire
a noi e farsi da noi trovare, dove egli vuole. Perciò dobbiamo rispondergli là
dove egli ha prima risposto a noi, e non là dove noi preferiremmo averlo.
Celebrare l’eucaristia significa che noi entriamo nella
risposta di Dio già data e in essa diventiamo noi stessi capaci di rispondere. L’importante
non è un qualunque pio sentimento che riduce la religione a qualcosa di non
vincolante e di privato, ma l’obbedienza che accoglie il suo appello. Il
Signore non vuole i nostri sentimenti privati, ma intende raccoglierci a
formare una comunità e, a partire dalla fede, vuole costruire la nuova comunità
della chiesa. Della liturgia fa parte il corpo e fa parte la comunità con i
suoi limiti e le sue scomodità. Perciò anche il chiederci: «Che cosa mi dice?»,
è domanda ingannevole.
Nella liturgia non possiamo essere semplicemente dei
passivi ricevitori, che si lasciano inondare di bei sentimenti e alla fine misurano
il profitto del proprio benessere psichico per valutare in base a esso il
valore della liturgia. Nella liturgia non si tratta del fatto che essa ‘dica’
qualcosa, ma di coinvolgere noi stessi nell’obbedienza della fede e della
chiesa. Questo non lo si
coglie subito nel guadagno psichico misurabile, anzi all’inizio può [136]
essere persino faticoso.
Ma chi si lascia
continuamente interpellare dalla liturgia, chi accetta la difficoltà del
pregare comunitario con le preghiere antiche della fede, chi credendo e
pregando penetra nella profondità di questa corrente di preghiera, costui
sperimenta come a poco a poco viene portato oltre se stesso;
il suo pensare e tutta la sua vita acquistano profondità, purezza e libertà. Non si tratta affatto più del proprio
piccolo Io; chi, di domenica in domenica, celebra l’eucaristia della chiesa,
prende parte alla grandezza e all’ampiezza del pregare della chiesa, che si
estende universalmente e temporalmente, e in esso alla ampiezza di Gesù Cristo
stesso, il quale nell’eucaristia mantiene la sua promessa: «Quando sarò elevato
da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
Perciò
non si tratta neppure di fare dell’eucaristia un oggetto di forme arbitrarie,
in cui ciò che è grande viene ridotto a nostra misura: non è
l’eucaristia che va ridotta alla nostra misura, ma noi dobbiamo lasciarci
portare alla sua misura, la misura di Gesù Cristo.
Con
ciò si è già risposto anche ad altre domande che affiorano in questo contesto.
La chiesa non ha il diritto di sostituire la celebrazione eucaristica
domenicale con altre forme di liturgia. Questo può avvenire soltanto in casi di
reale necessità. Quando si dà un caso di necessità, deve essere accuratamente
vagliato in dettaglio. Secondo un ordinamento ecclesiastico antico, un
sacerdote può celebrare l’eucaristia non più di tre volte in una giornata –
questo è un criterio. La possibilità per i fedeli di andare in una chiesa per
la celebrazione dell’eucaristia è l’altro criterio con cui le comunità e i
singoli cristiani, insieme con il loro parroco, si devono confrontare
accuratamente.
La
situazione odierna, in cui non è possibile celebrare ogni domenica l’eucaristia
in tutti gli antichi luoghi di culto, deve essere una occasione per imparare
reciprocamente l’ospitalità spirituale: nessuna
comunità può chiudersi in se stessa e voler andare soltanto nella propria
chiesa. È cattolico proprio l’andare, la domenica, gli uni verso gli altri,
superare i confini di comunità rigidamente [137] chiuse, accogliersi
vicendevolmente; proprio questa ospitalità, che diventa amicizia e conduce a
una reciprocità più grande, appartiene all’essenza dell’eucaristia.
In
questo senso la odierna situazione di necessità potrebbe essere anche una
opportunità di diventare ‘cattolici’ nel senso
più profondo della parola, ossia aperti gli uni per gli altri,
creativi nel servizio reciproco: accogliere anziani e malati, non soltanto
scambi tra comunità, ma anche all’interno di esse prendersi a cuore
reciprocamente gli uni degli altri, per andare insieme in chiesa. Qui si apre
un grande campo di attività per un modo vivo di essere chiesa gli uni con gli
altri.
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