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Il senso della Pentecoste è di destarci all’oggi, alla silenziosa forza della bontà divina che bussa alla nostra esistenza e vorrebbe trasformarla.

tratto da Joseph Ratzinger, Cercate le cose di lassù. Riflessioni per tutto l’anno,  Paoline 1986, Capitolo La festa dello Spirito, § 1. Risvegliarsi alla forza che viene dal silenzio, Paoline, Milano 1986, pp. 51-57.

1. Risvegliarsi alla forza che viene dal silenzio

Pentecoste e Spirito Santo... da quando esiste la cristianità sono parole di una forza quasi magnetica, il cui effetto, proprio nell’età moderna, supera l’ambito dei fedeli praticanti.
Agli inizi, per l’esperienza che la Chiesa terrena faceva dei propri limiti e piccolezze umane, nutriva costantemente il desiderio di una Chiesa dello Spirito, della libertà e dell’amore. Si comincia con i predicatori montanisti del secondo secolo e si giunge fino alle speranze e ai desideri che accompagnarono il Concilio Vaticano II.

Nell’alto medioevo l’abate Gioacchino da Fiore, in Calabria, ha elaborato una teoria su questa attesa che è cresciuta di secolo in secolo addirittura come una valanga. Egli insegnava che al primo regno del Padre e al secondo regno del Figlio avrebbe fatto seguito un terzo regno, il regno dello Spirito, nel quale non sarebbero più state necessarie le leggi e le norme esterne, perché lo Spirito e l’amore avrebbero guidato gli uomini alla libertà, rendendo superfluo ogni dominio esteriore.

Dal dodicesimo secolo, questa visione ha continuato ad ispirare teologi, filosofi e politici. I primi [51] tentativi medievali di ristabilire la repubblica romana in contrapposizione al dominio dei Papi in Italia si richiamavano all’abate profeta, persino il Duce di infausta memoria, conosciuta la dottrina del religioso medievale in una conferenza di Ginevra, voleva portarla a compimento.
E così Hegel si senti ispirato da Gioacchino, e una traccia per quanto esile delle sue teorie è presente anche nelle speranze marxiste di una società senza classi, senza alienazione né sfruttamento.
Le variazioni sul tema dello Spirito Santo sono infinite e giungono addirittura alla speranza di poter istituire il regno dello Spirito come regno della materia.

Ma qual è il vero messaggio della Pentecoste? Con quale risposta la Chiesa, dalla quale il tema è scaturito, ha affrontato le variazioni che nelle loro conseguenze si sono per lo più ribaltate contro di essa? A questo proposito ha da dire qualcosa di significativo anche per l’oggi, che può avere importanza oltre l’ambito ristretto dei suoi seguaci?

Una risposta che resti nella tradizione originaria della fede è tanto più difficile perché non si può contrapporre niente di altrettanto evidente alle speranze e ai programmi tangibili.
Si può avvertire questo dilemma molto presto, fin dal Vangelo di Giovanni, che, in mezzo a parole di grandezza spesso impenetrabile, contiene interrogativi di un realismo quasi sconcertante. Così, per esempio, Giuda Taddeo, proprio durante il discorso di commiato di Gesù, domanda: «Signore, perché devi manifestarti a noi e non al mondo?» (14,22).

Questa è la domanda che segretamente conti[52]nuiamo a sollevare: perché dunque il Risorto è rimasto soltanto nella cerchia dei suoi, invece di presentarsi in tutta la sua potenza agli avversari, cancellando ogni dubbio? Perché, per tutta la storia, si lascia cogliere solo a fatica attraverso le parole del Vangelo, invece di fondare inequivocabilmente un regno dello Spirito e dell’amore?

La risposta di Gesù nel Vangelo di Giovanni è cifrata. Agostino l’ha formulata in questo modo: dipende dal fatto che solo chi ha lo Spirito può vedere lo Spirito. Si rifà ad una frase del filosofo Plotino, da lui ammirato, che Goethe ha così tradotto in tedesco: «Wär nicht das Auge sonnenhaft, die Sonne könnt es nicht erkennen» (se l’occhio non fosse solare non potrebbe riconoscere il sole).
Ma chiediamoci di nuovo: cosa sono realmente la Pentecoste e lo Spirito Santo? Poiché non è possibile mostrarli direttamente, si può ricorrere solo a delle immagini per chiarire il loro significato.

Fin dai tempi antichi la liturgia della Chiesa ha trovato una valida immagine nel Salmo 68 (67), inteso già nella Lettera agli Efesini (4,7) come un inno di trionfo per l’Ascensione di Gesù Cristo e quindi come rappresentazione del nesso che lega la Pasqua alla Pentecoste.
Il versetto 19 di questo Salmo recita: «Sei salito in alto conducendo prigionieri, hai ricevuto uomini in tributo». Nell’interpretazione data da Paolo nella sua Lettera ciò significa: Cristo, in quanto Messia, è un re vittorioso che ha combattuto e vinto la battaglia decisiva della storia del mondo: la battaglia contro la morte, nemica originaria della vita. Ora rivendica il diritto del vincitore a spartire il bottino.

Ma [53] qual è il bottino che egli distribuisce? La risposta è: il dono di Dio è Dio stesso, lo Spirito Santo.
Per la creatura umana era ed è troppo e troppo poco al tempo stesso. Certo, Israele attendeva un vincitore che conducesse battaglie e portasse a casa, al popolo eletto, un bottino di valore senza uguale. Ma questa battaglia – la croce – e questo bottino: lo Spirito Santo come forza nei credenti, deludevano le loro aspettative. Non era ciò che avevano desiderato. Si allontanarono da lui, cercando e trovando altri messia, che combatterono battaglie violente e disperatamente eroiche contro la superpotenza romana, portando infine il paese alla rovina. Il bottino lo fece la morte; essa fu la vera vincitrice di quella lotta secolare.

E il mondo cristiano e noi qui ed ora? Da un liberatore ci aspetteremmo anche noi doni completamente diversi da quelli descritti da Paolo. Noi aspettiamo una casa, del denaro, buon cibo, bei viaggi, successo, prestigio, comodità, pace e sicurezza.
Ma non lo Spirito Santo, perché esso è in realtà il contrario di tutto questo: ci fa sentire a disagio per le nostre proprietà, la nostra comodità e il prestigio, che tanto spesso poggia su dubbi compromessi. È un uragano. Non ci lascia tranquilli nella nostra comodità, ci sottopone al ridicolo mettendoci al servizio della verità e spingendoci a superare noi stessi per amare l’altro «come noi stessi». C’insegna una liberazione completamente diversa da quella del «terzo regno» e di tutti i paradisi terrestri. Eppure... l’uragano che libera l’uomo da se stesso, che lo rende autentico [54] e buono, non è forse la più profonda delle rivoluzioni, la sola vera speranza del mondo?

Ma, viene da domandarsi, non è una contraddizione?
Da una parte sentiamo che lo Spirito Santo è qualcosa che non si può mostrare; che è invisibile in un senso molto profondo, come l’amore che sconvolge l’uomo e lo trasforma, ma che non si può mostrare come si esibisce un’auto nuova. Dall’altra parte si dice che lo Spirito Santo è un uragano, un principio di trasformazione tale da essere indicato come la forza della nuova creazione, il cui intervento sulla realtà non è meno fondamentale di una «creazione».
Com’è possibile? Il nocciolo della risposta è già stato dato accennando all’amore che non si può esibire ma che è la forza fondamentale della vita umana, anzi, della realtà.

Forse una parabola può contribuire a spiegare meglio ciò che intendo dire. Alcuni anni fa è uscito un film impressionante, intitolato «Seelenwanderung» (Metempsicosi). Raccontava di due poveri diavoli che, per la loro bontà, non riuscivano a farsi strada. Ad uno un giorno viene l’idea, non avendo più niente da dar via, di vendere l’anima, che viene acquistata a poco prezzo e sistemata in una scatola. Da quel momento, con sua grande sorpresa, tutto cambia nella sua vita. Inizia una rapida ascesa, diventa sempre più ricco, ottiene grandi onori e alla sua morte è console, largamente provvisto di denaro e di beni. Dal momento in cui si era liberato della sua anima non aveva avuto più riguardi né umanità. Agiva senza scrupoli, badando solo al guadagno e al suc[55]cesso. L’uomo non contava più niente. Lui stesso non aveva più un’anima. Il film dimostrava in maniera impressionante come dietro alla facciata del successo si nasconda un’esistenza vuota. Apparentemente l’uomo non ha perduto niente, ma gli manca l’anima e con essa manca tutto.

È ovvio che l’essere umano non può gettare via letteralmente la propria anima, è ciò che Io rende persona. Rimane comunque persona umana. Eppure ha la spaventosa possibilità di essere un disumano, di rimanere persona vendendo e perdendo al tempo stesso la propria umanità. La distanza tra la persona umana e essere disumano è immensa eppure non si può dimostrare; è la cosa realmente essenziale eppure è apparentemente senza importanza. Mi sembra che questa metafora possa spiegare molti aspetti della Pentecoste.

Se lo Spirito Santo, il dono della nuova creazione penetra nella persona o no, se questa le fa spazio o no, non lo si può vedere né dimostrare esteriormente. Apparentemente non ha importanza. Tuttavia questo fatto apre una nuova dimensione della vita umana, dalla quale, in ultima analisi, dipende tutto.

Perciò il senso della Pentecoste non è quello di farci sognare mondi migliori per il futuro, né tanto meno quello di fare di noi degli strateghi del futuro, che sacrificano alla leggera il presente alla chimera di ciò che sarà. Il senso di questo giorno è piuttosto, al contrario, quello di destarci all’oggi, alla silenziosa forza della bontà divina che bussa alla nostra esistenza e vorrebbe trasformarla. Il risveglio alla forza che viene dal silenzio... non potrebbe essere un compito e una [56] speranza per cristiani e non cristiani, un’interpretazione della Pentecoste che può toccare tutti?

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