Joseph Ratzinger, Una compagnia in cammino. La Chiesa e il suo ininterrotto rinnovamento, in Communio. Rivista internazionale
di Teologia e Cultura, Jaca Book, n. 208-210 (luglio-dicembre 2006) - La vita di Dio per gli uomini, pp. 336-349.
Una compagnia in cammino. La Chiesa e il suo
ininterrotto rinnovamento.*
Lo
scontento verso la Chiesa
Non
c'è bisogno di molta immaginazione per indovinare che la compagnia di cui qui voglio parlare è la Chiesa. Forse si è
evitato di menzionare nel titolo il termine “Chiesa” solo perché esso provoca
spontaneamente, nella maggior parte degli uomini di oggi, reazioni di difesa.
Essi pensano: “di Chiesa abbiamo già sentito parlare fin troppo e per lo più
non si è trattato di niente di piacevole”. La parola e la realtà della Chiesa
sono cadute in discredito. E perciò anche una simile riforma permanente non
sembra poter cambiare qualcosa. O forse
il problema è solamente che finora non è stato scoperto il tipo di riforma che
potrebbe fare della Chiesa una compagnia
che valga davvero la pena di essere vissuta?
Ma
chiediamoci innanzitutto: perché la
Chiesa riesce sgradita a così tante persone, e addirittura anche a credenti,
anche a persone che fino a ieri potevano essere annoverate tra le più fedeli o
che, pur tra [336] sofferenze, lo sono in qualche modo ancora oggi? I
motivi sono tra loro molto diversi, anzi opposti, a seconda delle posizioni.
Alcuni soffrono
perché la Chiesa si è troppo adeguata ai parametri del mondo d'oggi; altri sono
infastiditi perché ne resta ancora troppo estranea. Per la maggior parte della gente, la
scontentezza nei confronti della Chiesa comincia col fatto che essa è
un'istituzione come tante altre, e che come tale limita la mia libertà. La
sete di libertà è la forma in cui oggi si esprimono il desiderio di liberazione
e la percezione di non essere liberi, di essere alienati. L'invocazione di
libertà aspira ad un'esistenza che non sia limitata da ciò che è già dato e che
mi ostacola nel mio pieno sviluppo, presentandomi dal di fuori la strada che io
dovrei percorrere. Ma dappertutto andiamo a sbattere contro barriere e blocchi
stradali di questo genere, che ci fermano impedendoci di andare oltre. Gli
sbarramenti che la Chiesa innalza si presentano quindi come doppiamente
pesanti, poiché penetrano fin nella sfera più personale e più intima. Le norme
di vita della Chiesa sono infatti ben di più che una specie di regole del
traffico, affinché la convivenza umana eviti il più possibile gli scontri. Esse
riguardano il mio cammino interiore, e mi dicono come devo comprendere e
configurare la mia libertà. Esse esigono da me decisioni, che non si possono
prendere senza il dolore della rinuncia. Non si vuole forse negarci i frutti
più belli del giardino della vita? Non è forse vero che con la ristrettezza di
così tanti comandi e divieti ci viene sbarrata la strada di un orizzonte
aperto? E il pensiero, non viene forse ostacolato nella sua grandezza, come
pure la volontà? Non deve forse la liberazione essere necessariamente l'uscita
da una simile tutela spirituale? E l'unica vera riforma, non sarebbe forse
quella di respingere tutto ciò? Ma allora cosa rimane ancora di questa
compagnia?
L'amarezza contro la Chiesa ha però anche
un motivo specifico. Infatti, in mezzo ad un mondo governato da dura disciplina
e da inesorabili costrizioni, si leva verso la Chiesa
ancora e sempre una silenziosa speranza: essa potrebbe rappresentare in tutto
ciò come una piccola isola di vita migliore, una piccola oasi di libertà, in
cui di tanto in tanto ci si può ritirare. L'ira contro la Chiesa o
la delusione nei suoi confronti hanno perciò un carattere particolare, poiché
silenziosamente ci si attende da essa di più che da altre istituzioni mondane. In essa si dovrebbe realizzare il sogno di
un mondo migliore. Quanto meno, si vorrebbe assaporare in essa il gusto
della libertà, dell'essere liberati: quell'uscir fuori dalla caverna, di cui
parla Gregorio Magno ricollegandosi a Platone. [337]
Tuttavia,
dal momento che la Chiesa nel suo aspetto concreto si è talmente allontanata da
simili sogni, assumendo anch'essa il sapore di una istituzione e di tutto ciò
che è umano, contro di essa sale una collera particolarmente amara. E questa
collera non può venir meno, proprio poiché non si può estinguere quel sogno che
ci aveva rivolti con speranza verso di essa. Siccome la Chiesa non è così come appare nei sogni, si cerca
disperatamente di renderla come la si desidererebbe: un luogo in cui si possano
esprimere tutte le libertà, uno spazio dove siano abbattuti i nostri limiti,
dove si sperimenti quell'utopia che ci dovrà pur essere da qualche parte.
Come nel campo dell'azione politica si vorrebbe finalmente costruire il mondo
migliore, così si pensa, si dovrebbe finalmente (magari come prima tappa sulla
via verso di esso) metter su anche la Chiesa migliore: una Chiesa di piena
umanità, piena di senso fraterno, di generosa creatività, una dimora di
riconciliazione di tutto e per tutti.
Riforma inutile
Ma
in che modo dovrebbe accadere questo? Come può riuscire una simile riforma? Orbene; dobbiamo pur cominciare, si dice.
Lo si dice spesso con l'ingenua presunzione dell'illuminato, il quale è
convinto che le generazioni fino ad ora non abbiano ben compreso la questione,
oppure che siano state troppo timorose e poco illuminate; noi però abbiamo ora
finalmente nello stesso tempo sia il coraggio che l'intelligenza. Per
quanta resistenza possano opporre i reazionari e i "fondamentalisti"
a questa nobile impresa, essa deve venir posta in opera. Almeno c'è una ricetta
oltremodo illuminante per il primo passo.
La
Chiesa non è una democrazia. Da quanto appare, essa non ha ancora integrato
nella sua costituzione interna quel patrimonio di diritti della libertà che
l'Illuminismo ha elaborato e che da allora è stato riconosciuto come regola
fondamentale delle formazioni sociali e politiche. Così sembra la cosa più
normale del mondo recuperare una buona volta quanto era stato trascurato e
cominciare coll'erigere questo patrimonio fondamentale di strutture di libertà.
Il cammino conduce - come si suol dire - da una Chiesa paternalistica e
distributrice di beni ad una Chiesa-comunità. Si dice che nessuno più dovrebbe
rimanere passivo ricevitore dei doni che fanno esser cristiano. Tutti devono
invece diventare attivi operatori della vita cristiana. La Chiesa non deve più
venir calata giù dall'alto. No! Siamo noi che "facciamo" la Chiesa, e
la facciamo sempre nuova. Così essa diverrà finalmente la "nostra"
Chiesa, e noi i suoi attivi soggetti responsabili. L'aspetto passivo cede a quello
attivo. La Chiesa sorge attraverso discussioni, accordi e decisioni. Nel
dibatti[338]to emerge ciò che ancora oggi può esser richiesto, ciò che oggi può
ancora essere riconosciuto da tutti come appartenente alla fede o come linea
morale direttiva. Vengono coniate nuove "formule di fede" abbreviate.
In Germania, a un livello abbastanza
elevato, è stato detto che anche la Liturgia non deve più corrispondere ad uno
schema previo, già dato, ma deve sorgere invece sul posto, in una data
situazione ad opera della comunità per cui viene celebrata. Anche essa non deve
più essere niente di già precostituito, ma invece qualcosa di fatto da sé,
qualcosa che sia espressione di se stessi. Su questa via si rivela essere
un po’ di ostacolo, per lo più, la parola della Scrittura, alla quale però non
si può rinunciare del tutto. Si deve allora affrontarla con molta libertà di
scelta. Non sono molti però i testi che si lasciano impiegare in modo tale da
adattarsi senza disturbi a quell'auto-realizzazione, alla quale la liturgia ora
sembra essere destinata.
In
quest'opera di riforma, in cui ora finalmente anche nella Chiesa l’“autogestione”
deve sostituire l'esser guidati da altri, sorgono però presto delle domande.
Chi ha qui propriamente il diritto di prendere le decisioni? Su quale base ciò
avviene? Nella democrazia politica, a questa domanda si risponde con il sistema
della rappresentanza: nelle elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti,
i quali prendono le decisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo; è
circoscritto anche contenutisticamente in grandi linee dal sistema partitico, e
comprende solo quegli ambiti dell'azione politica che dalla Costituzione sono
assegnati alle entità statali rappresentative. Anche a questo proposito
rimangono delle questioni: la minoranza deve chinarsi alla maggioranza, e
questa minoranza può essere molto grande. Inoltre, non è sempre garantito che
il rappresentante che ho eletto agisca e parli davvero nel senso da me
desiderato, cosicché anche la maggioranza vittoriosa, osservando le cose più da
vicino, ancora una [339] volta non può considerarsi affatto interamente come
soggetto attivo dell'evento politico. Al contrario, essa deve accettare anche “decisioni
prese da altri”, onde perlomeno non mettere in pericolo il sistema nella sua
interezza.
Più
importante per la nostra questione è però un problema generale.
Tutto quello che
gli uomini fanno, può anche essere annullato da altri. Tutto ciò che proviene
da un gusto umano può non piacere ad altri. Tutto ciò che una maggioranza
decide può venire abrogato da un'altra maggioranza. Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una
maggioranza diventa una Chiesa puramente umana. Essa è ridotta al livello di
ciò che è plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie
intuizioni ed opinioni. L'opinione sostituisce la fede. Ed
effettivamente, nelle formule di fede coniate da sé che io conosco, il
significato dell'espressione “credo” non va mai al di là del significato “noi
pensiamo”. La Chiesa fatta da sé ha alla
fine il sapore del “se stessi”, che agli altri “se stessi” non è mai gradito e
ben presto rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell'ambito
dell'empirico, e così si è dissolta anche come ideale sognato.
L'essenza della vera riforma
L'attivista, colui
che vuole costruire tutto da sé, è il contrario di colui che ammira (l’“ammiratore”).
Egli restringe
l'ambito della propria ragione e perde così di vista il Mistero. Quanto più
nella Chiesa si estende l'ambito delle cose decise da sé e fatte da sé, tanto
più angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione
grande, liberante, non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da
quello che a noi tutti è donato. Quello che non proviene dal nostro volere e
inventare, bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile,
di ciò che "è più grande del nostro cuore". La reformatio, quella che è
necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci
sempre di nuovo la "nostra" Chiesa come più ci piace, che noi
possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le
nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che
viene dall'alto e che è nello stesso tempo l'irruzione della pura libertà.
Lasciatemi dire con un'immagine ciò che io
intendo, un'immagine che ho trovato in Michelangelo, il quale riprende in
questo da parte sua antiche concezioni della mistica e della filosofia
cristiane. Con lo sguardo dell'artista, Michelangelo vedeva già nella pietra
che gli stava davanti l'immagine-guida che nascostamente attendeva di venir
liberata e messa in luce. Il compito dell'artista - secondo lui - era solo
quello di toglier [340] via ciò che ancora ricopriva l'immagine. Michelangelo
concepiva l'autentica azione artistica come un riportare alla luce, un
rimettere in libertà, non come un fare.
La stessa idea applicata però all'ambito
antropologico, si trovava già in San Bonaventura, il quale spiega il
cammino attraverso cui l'uomo diviene autenticamente se stesso, prendendo lo
spunto dal paragone con l'intagliatore di immagini, cioè con lo scultore. Lo
scultore non fa qualcosa, dice il grande teologo francescano. La sua opera è
invece una ablatio: essa consiste nell'eliminare, nel togliere via ciò
che è inautentico. In questa maniera, attraverso la ablatio, emerge la nobilis
forma, cioè la figura preziosa. Così anche
l'uomo, affinché risplenda in lui l'immagine di Dio, deve soprattutto e prima
di tutto accogliere quella purificazione, attraverso la quale lo scultore, cioè
Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l'aspetto autentico del suo
essere, facendolo apparire solo come un blocco di pietra grossolano, mentre
invece inabita in lui la forma divina.
Se
la intendiamo giustamente, possiamo trovare in questa immagine anche il modello
guida per la riforma ecclesiale. Certo, la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane
di sostegno, per poter parlare e operare ad ogni epoca storica. Tali
istituzioni ecclesiastiche, con le loro configurazioni giuridiche, lungi
dall'essere qualcosa di cattivo, sono al contrario, in un certo grado,
semplicemente necessarie e indispensabili. Ma esse invecchiano, rischiano di presentarsi come la cosa
più essenziale, e distolgono così lo sguardo da quanto è veramente essenziale.
Per questo esse devono sempre di nuovo venir portate via, come impalcature
divenute superflue. Riforma è sempre nuovamente una ablatio:
un toglier via, affinché divenga visibile la nobilis forma, il volto
della Sposa e insieme con esso anche il volto dello Sposo stesso, il Signore vivente.
Una
simile ablatio, una simile “teologia negativa”, è una via verso un
traguardo del tutto positivo. Solo così il Divino penetra, e solo così sorge
una congregatio, un'assemblea, un raduno, una purificazione, quella
comunità pura a cui aneliamo: una comunità in cui un “io” non sta più contro un
altro “io”, un “sé” contro un altro “sé”. Piuttosto quel do[341]narsi, quell'affidarsi con fiducia, che fa
parte dell'amore, diventa il reciproco ricevere tutto il bene e tutto ciò che è
puro. E così per ciascuno vale la parola del Padre generoso, il
quale al figlio maggiore invidioso richiama alla memoria quanto costituisce il
contenuto di ogni libertà e di ogni utopia realizzata: “Tutto ciò che è mio è tuo...” (Lc 15,31; cfr. Gv 17,1).
La
vera riforma è dunque una ablatio, che come tale diviene congregatio.
Cerchiamo di afferrare in modo un po’ più concreto quest'idea di fondo. In
un primo approccio avevamo contrapposto
all'attivista l'ammiratore, e ci eravamo espressi in favore di quest'ultimo.
Ma che cosa esprime questa contrapposizione? L'attivista,
colui che vuol sempre fare, pone la sua propria attività al di sopra di tutto.
Ciò limita il suo orizzonte all'ambito del fattibile, di ciò che può diventare
oggetto del suo fare. Propriamente parlando egli vede soltanto degli oggetti.
Non è affatto in grado di percepire ciò che è più grande di lui, poiché ciò
porrebbe un limite alla sua attività. Egli restringe il mondo a ciò che è
empirico. L'uomo viene amputato. L'attivista si
costruisce da solo una prigione, contro la quale poi egli stesso protesta ad
alta voce.
Invece l'autentico stupore è un "No" alla
limitazione dentro ciò che è empirico, dentro ciò che è solamente l'al di qua.
Esso prepara l'uomo all'atto della fede, che gli spalanca d'innanzi
l'orizzonte dell'Eterno, dell'Infinito. E solamente ciò che
non ha limiti è sufficientemente ampio per la nostra natura, solamente
l'illimitato è adeguato alla vocazione del nostro essere. Dove questo
orizzonte scompare, ogni residuo di libertà diventa troppo piccolo e tutte le
liberazioni, che di conseguenza possono venir proposte, sono un insipido
surrogato, che non basta mai.
La prima, fondamentale ablatio, che
è necessaria per la Chiesa, è sempre nuovamente l'atto della fede stessa.
Quell'atto di fede che lacera le barriere del finito e apre così lo spazio per
giungere sino allo sconfinato. La fede ci conduce “lontano, in terre sconfinate”,
come dicono i Salmi.
Il moderno pensiero
scientifico ci ha sempre più rinchiusi nel carcere del positivismo,
condannandoci così al pragmatismo. Per merito suo si possono
raggiungere molte cose; si può viaggiare fin sulla luna e ancora più lontano,
nell'illimitatezza del cosmo. Tuttavia, nonostante questo, si rimane sempre
allo stesso punto, perché la vera e propria frontiera, la frontiera del
quantitativo e del fattibile, non viene oltrepassata. Albert Camus ha descritto
l'assurdità di questa forma di libertà nella figura dell'imperatore Caligola:
tutto è a sua disposizione, ma ogni cosa gli è troppo stretta. Nella sua folle
bramosia di avere sempre di più, e cose sempre più grandi, egli grida: Voglio
avere la luna, datemi la luna! [342]
Ora, nel frattempo, è divenuto per noi
possibile avere in qualche modo anche la luna. Ma finché non si apre la vera e
propria frontiera, la frontiera fra terra e cielo, tra Dio e il mondo, anche la
luna è solamente un ulteriore pezzetto di terra, e il raggiungerla non ci porta
neanche di un passo più vicini alla libertà e alla pienezza che desideriamo.
La fondamentale
liberazione che la Chiesa può darci è lo stare nell'orizzonte dell'Eterno, è
l'uscir fuori dai limiti del nostro sapere e del nostro potere. La
fede stessa, in tutta la sua grandezza e ampiezza, è perciò sempre nuovamente
la riforma essenziale di cui noi abbiamo bisogno; a partire da essa noi dobbiamo
sempre di nuovo mettere alla prova quelle istituzioni che nella Chiesa noi
stessi abbiamo fatto. Ciò significa che la
Chiesa deve essere il ponte della fede, e che essa - specialmente nella sua
vita associazionistica intramondana - non può divenire fine a se stessa.
È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici
elevati, l'idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata
in attività ecclesiali. Si
spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell'attività, del darsi da fare;
a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni caso, almeno un qualche
impegno all'interno della Chiesa. In un qualche modo, così si pensa, ci deve
sempre essere un'attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve
fare qualcosa per essa o in essa. Ma uno specchio che riflette solamente se
stesso non è più uno specchio; una finestra che invece di consentire uno
sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra
l'osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso.
Può capitare che
qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e
tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro
viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l'amore che
proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza
essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto
parte di sinodi e senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero
cristiano.
Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì
di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana.
E per questo tutto ciò che è fatto
dall'uomo, all'interno della Chiesa, deve riconoscersi nel suo puro carattere
di servizio e ritrarsi davanti a ciò che più conta e che è l'essenziale.
La libertà, che noi
ci aspettiamo con ragione dalla Chiesa e nella Chiesa non si realizza per il
fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza.
Essa non dipende dal fatto che la maggioranza più ampia possibile prevalga
sulla minoranza più esigua possibile. Essa dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo
proprio volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla parola e alla
volontà dell'Unico, che è il nostro Signore e la nostra libertà.
Nella Chiesa l'atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del
ministero dimenticano che il Sacramento non è una spar[343]tizione di potere,
ma è invece espropriazione di me stesso in favore di Colui, nella persona del
quale io devo parlare ed agire. Dove alla sempre maggiore responsabilità
corrisponde la sempre maggiore autoespropriazione, lì nessuno è schiavo
dell'altro; lì domina il Signore e perciò vale il principio che: «Il Signore è
lo Spirito. Dove però c'è lo Spirito del Signore ivi c'è la libertà» (2Cor 3,
17).
Quanti più apparati noi costruiamo, siano
anche i più moderni, tanto meno c'è spazio per lo Spirito, tanto meno c'è
spazio per il Signore, e tanto meno c'è libertà. lo penso che noi dovremmo,
sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame
di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza
dovrebbe avere conseguenze assai concrete, e recare con sé una ablatio che
lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare
a noi tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria in maniera
completamente nuova.
Morale, perdono ed espiazione: il centro
personale della riforma
Guardiamo
un attimo, prima di andare avanti, a quanto fin qui abbiamo messo in luce. Abbiamo parlato di un doppio “toglimento”,
di un atto di liberazione, che è un duplice atto: di purificazione e di
rinnovamento. Da prima il discorso ha toccato la fede, che infrange le mura
del finito e libera lo sguardo verso le dimensioni dell'Eterno, e non solo lo
sguardo, ma anche la strada. La fede è
infatti non soltanto riconoscere ma operare; non soltanto una frattura nel
muro, ma una mano che salva, che tira fuori dalla caverna. Da ciò abbiamo
tratto la conseguenza, per le istituzioni, che l'essenziale ordinamento di
fondo della Chiesa ha sì bisogno sempre di nuovi sviluppi concreti e di
concrete configurazioni - affinché la sua vita si possa sviluppare in un tempo
determinato - ma che però queste configurazioni non possono diventare la cosa
essenziale. La Chiesa infatti non esiste allo scopo
di tenerci occupati come una qualsiasi associazione intramondana e di
conservarsi in vita essa stessa, ma esiste invece per divenire in noi tutti
accesso alla vita eterna.
Ora
dobbiamo compiere un passo ulteriore, e applicare tutto questo non più al
livello generale e oggettivo quale era finora, ma all'ambito personale. Infatti
anche qui, nella sfera personale, è
necessario un "toglimento" che ci liberi. Sul piano personale non è
sempre e senz'altro la "forma preziosa", cioè l'immagine di Dio
inscritta in noi, a balzare all'occhio.
Come
prima cosa noi vediamo invece soltanto l'immagine di Adamo, l'immagine
dell'uomo non del tutto distrutto, ma pur sempre decaduto. Vediamo le
incrostazioni di polvere e sporcizia, che si sono [344] posate sopra
l'immagine. Noi
tutti abbiamo bisogno del vero Scultore, il quale toglie via ciò che deturpa
l'immagine, abbiamo bisogno del perdono, che costituisce il nucleo di ogni vera
riforma. Non è certamente un caso che nelle tre tappe decisive del
formarsi della Chiesa, raccontate dai Vangeli, la remissione dei peccati giochi
un ruolo essenziale. C'è in primo luogo la consegna delle chiavi a Pietro. La
potestà a lui conferita di legare e sciogliere, di aprire e chiudere, di cui
qui si parla, è, nel suo nucleo, incarico di lasciar entrare, di accogliere in
casa, di perdonare (Mt 16,19). La stessa cosa si trova di nuovo nell'Ultima
Cena, che inaugura la nuova comunità a partire dal corpo di Cristo e nel corpo
di Cristo. Essa diviene possibile per il fatto che il Signore versa il suo sangue "per i molti,
in remissione dei peccati" (Mt 26,28). Infine il Risorto, nella sua
prima apparizione agli Undici, fonda la comunione della sua pace nel fatto che
egli dona loro la potestà di perdonare (Gv 20,19-23). La Chiesa non è una
comunità di coloro che "non hanno bisogno del medico", bensì una
comunità di peccatori convertiti, che vivono della grazia del perdono,
trasmettendola a loro volta ad altri.
Se
leggiamo con attenzione il Nuovo Testamento, scopriamo che il perdono non ha in sé niente di magico; esso
però non è nemmeno un far finta di dimenticare, non è "un fare come se
non", ma invece un processo di cambiamento del tutto reale,
quale lo Scultore lo compie.
Il toglier via la colpa rimuove davvero
qualcosa; l'avvento del perdono in noi si mostra nel sopraggiungere della
penitenza. Il perdono è in tal senso un processo attivo e passivo: la potente
parola creatrice di Dio su di noi opera il dolore del cambiamento e diventa
così un attivo trasformarsi. Perdono e penitenza, grazia e propria
personale conversione non sono in contraddizione, ma sono invece due facce
dell'unico e medesimo evento. Questa fusione di attività e passività esprime la
forma essenziale dell'esistenza umana. Infatti tutto il
nostro creare comincia con l'essere creati, con il nostro partecipare
all'attività creatrice di Dio.
Qui
siamo giunti ad un punto veramente centrale: credo
infatti che il nucleo della crisi spirituale del nostro tempo abbia le sue
radici nell'oscurarsi della grazia del perdono. Notiamo però
dapprima l'aspetto positivo del presente: la dimensione morale comincia
nuovamente a poco a poco a venir tenuta in onore. Si riconosce, anzi è divenuto
evidente, che ogni progresso tecnico è discutibile e ultimamente distruttivo,
se ad esso non corrisponde una crescita morale. Si ricono[345]sce che non c'è
riforma dell'uomo e dell'umanità senza un rinnovamento morale. Ma l'invocazione
di moralità rimane alla fine senza energia, poiché i parametri si nascondono in
una fitta nebbia di discussioni. In effetti l'uomo non può sopportare la pura e semplice
morale, non può vivere di essa: essa diviene per lui una "legge", che
provoca il desiderio di contraddirla e genera il peccato.
Perciò là dove il
perdono, il vero perdono pieno di efficacia, non viene riconosciuto o non vi si
crede, la morale deve venir tratteggiata in modo tale che le condizioni del
peccare per il singolo uomo non possano mai propriamente verificarsi. A grandi
linee si può dire che l'odierna discussione morale tende a liberare gli uomini
dalla colpa, facendo sì che non subentrino mai le condizioni della sua
possibilità. Viene in mente la mordace frase di Pascal: Ecce patres, qui tollunt peccata mundi!.
Ecco i padri, che tolgono i peccati del mondo. Secondo questi "moralisti",
non c'è semplicemente più alcuna colpa.
Naturalmente, tuttavia, questa maniera di
liberare il mondo dalla colpa è troppo a buon mercato. Dentro di loro, gli
uomini così liberati sanno assai bene che tutto questo non è vero, che il
peccato c'è, che essi stessi sono peccatori e che deve pur esserci una maniera
effettiva di superare il peccato. Anche Gesù stesso non chiama infatti coloro che si
sono già liberati da sé e che perciò - come essi ritengono - non hanno bisogno
di Lui, ma chiama invece coloro che si sanno peccatori e che perciò hanno
bisogno di Lui.
La morale conserva la sua serietà solamente se c'è il
perdono, un perdono reale, efficace; altrimenti essa ricade nel puro e vuoto
condizionale. Ma il vero perdono c'è solo se c'è il "prezzo d'acquisto",
l'"equivalente nello scambio", se la colpa è stata espiata, se esiste
l'espiazione. La circolarità
che esiste tra «morale - perdono –espiazione» non può essere spezzata; se manca
un elemento cade anche tutto il resto. Dall'indivisa esistenza di questo
circolo dipende se per l'uomo c'è redenzione oppure no. Nella Torah, nei
cinque libri di Mosé, questi tre elementi sono indivisibilmente annodati l'uno
all'altro e non è possibile perciò da questo centro compatto appartenente al
Canone dell'An[346]tico Testamento scorporare, alla maniera illuminista, una
legge morale sempre valida, abbandonando tutto il resto alla storia passata.
Questa modalità moralistica di attualizzazione dell'Antico Testamento finisce
necessariamente in un fallimento; in questo punto preciso stava già l'errore di
Pelagio, il quale ha oggi molti più seguaci di quanto non sembri a prima vista.
Gesù ha invece adempiuto a tutta la
Legge, non solamente ad una parte di essa e così l'ha rinnovata dalla base.
Egli stesso, che ha patito espiando ogni colpa, è espiazione e perdono
contemporaneamente, e perciò è anche l'unica sicura e sempre valida base della
nostra morale.
Non si può disgiungere la morale dalla
cristologia, poiché non la si può separare dall'espiazione e dal perdono. In Cristo tutta quanta la Legge è adempiuta, e quindi la
morale è diventata una vera, adempibile esigenza rivolta nei nostri confronti.
A partire dal nucleo della fede, si apre così sempre di nuovo la via del
rinnovamento per il singolo, per la Chiesa nel suo insieme e per l'umanità.
La sofferenza, il martirio e la gioia della
Redenzione
Su
questo ci sarebbe ora molto da dire. Cercherò però solo, molto brevemente, di
accennare come conclusione, ancora a ciò che nel nostro contesto mi appare come
la cosa più importante. Il perdono e la
sua realizzazione in me, attraverso la via della penitenza e della sequela, è
in primo luogo il centro del tutto personale di ogni rinnovamento. Ma
proprio perché il perdono concerne la persona nel suo nucleo più intimo, esso è
in grado di raccogliere in unità, ed è anche il centro del rinnovamento della
comunità.
Se infatti vengono
tolte via da me la polvere e la sporcizia, che rendono irriconoscibile in me
l'immagine di Dio, allora in tal modo io divengo davvero anche simile
all'altro, il quale è anche lui immagine di Dio, e soprattutto io divengo
simile a Cristo, che è l'immagine di Dio senza limite alcuno, il modello
secondo il quale noi tutti siamo stati creati. Paolo esprime questo
processo in termini assai drastici: «La vecchia immagine è passata, ecco ne è
sorta una nuova; non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Si
tratta di un processo di morte e di nascita. Io sono strappato al mio
isolamento e sono accolto in una nuova comunità-soggetto; il mio "io"
è inserito nell`io" di Cristo e così è unito a quello di tutti i miei
fratelli. Solamente a partire da questa
profondità di rinnovamento del singolo nasce la Chiesa, nasce la comunità che
unisce e sostiene in vita e in morte. Solamente quando prendiamo in
considerazione tutto ciò, vediamo la Chiesa nel suo giusto ordine di grandezza.
La Chiesa: essa non è soltanto il piccolo
gruppo degli attivisti che si [347] trovano insieme in un certo luogo per dare
avvio ad una vita comunitaria. La Chiesa non è nemmeno semplicemente la
grande schiera di coloro che alla domenica si radunano insieme per celebrare
l'Eucarestia. E infine, la Chiesa è anche di più che Papa, vescovi e preti, di
coloro che sono investiti del ministero sacramentale. Tutti costoro che abbiamo
nominato fanno parte della Chiesa, ma il raggio della compagnia in cui entriamo mediante la fede,
va più in là, va persino al di là della morte.
Di essa fanno parte
tutti i Santi, a partire da Abele e da Abramo e da tutti i testimoni
della speranza di cui racconta l'Antico Testamento, passando attraverso Maria,
la Madre del Signore, e i suoi apostoli, attraverso Thomas Becket e Tommaso
Moro, per giungere fino a Massimiliano Kolbe, a Edith Stein, a Piergiorgio
Frassati. Di essa fanno parte tutti gli sconosciuti e i non nominati, la cui
fede nessuno conobbe tranne Dio; di essa fanno parte gli uomini di tutti i
luoghi e tutti i tempi, il cui cuore si protende sperando e amando verso
Cristo, "l'autore e perfezionatore della fede", come lo chiama la
lettera agli Ebrei (12,2).
Non sono le maggioranze occasionali che si formano qui o
là nella Chiesa a decidere il suo e il nostro cammino. Essi, i Santi, sono la
vera, determinante maggioranza secondo la quale noi ci orientiamo. Ad essa noi ci
atteniamo! Essi traducono il divino nell'umano, l'eterno nel tempo. Essi sono i
nostri maestri di umanità, che non ci abbandonano nemmeno nel dolore e nella
solitudine, anzi anche nell'ora della morte camminano al nostro fianco.
Qui
noi tocchiamo qualcosa di molto importante. Una
visione del mondo che non può dare un senso anche al dolore e renderlo prezioso
non serve a niente. Essa fallisce proprio là dove fa la sua comparsa la
questione decisiva dell'esistenza. Coloro che sul dolore non hanno nient'altro
da dire se non che si deve combatterlo, ci ingannano. Certamente
bisogna fare di tutto per alleviare il dolore di tanti innocenti e per limitare
la sofferenza. Ma una vita umana senza
dolore non c'è, e chi non è capace di accettare il dolore, si sottrae a quelle
purificazioni che sole ci fanno diventar maturi. Nella comunione con Cristo il
dolore diventa pieno di significato, non solo per me stesso, come processo
di ablatio, in cui Dio toglie da me le scorie che oscurano la sua
immagine, ma anche al di là di me stesso esso è utile per il tutto, cosicché noi
tutti possiamo dire con San Pao[348]lo: «Perciò sono lieto delle sofferenze che
sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di
Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).
Thomas
Becket, che insieme con l'Ammiratore e con Einstein ci ha guidato nelle
riflessioni di questi giorni, ci incoraggia ancora ad un ultimo passo. La vita va più in là della nostra esistenza biologica.
Dove non c'è più motivo per cui vale la pena morire, là anche la vita non val
più la pena. Dove la fede ci ha aperto lo sguardo e ci ha reso il
cuore più grande, ecco che qui acquista tutta la sua forza di illuminazione
anche quest'altra frase di San Paolo: «Nessuno di noi vive per se stesso, e
nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se
moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque
del Signore» (Rom 14,7-8).
Quanto più noi siamo radicati nella
compagnia con Gesù Cristo e con tutti coloro che a Lui appartengono, tanto più
la nostra vita sarà sostenuta da quella irradiante fiducia cui ancora una volta
San Paolo ha dato espressione: «Di questo io sono certo: né morte né vita,
né angeli né potestà, né presente né futuro, né potenze, né altezza né
profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che
è in Cristo Gesù nostro Signore» (Rom 8,38-39).
Cari
amici, da simile fede noi dobbiamo lasciarci riempire! Allora la Chiesa cresce
come comunione nel cammino verso e dentro la vera vita, e allora essa si
rinnova di giorno in giorno. Allora essa diventa la grande casa con tante
dimore; allora la molteplicità dei doni dello Spirito può operare in essa.
Allora noi vedremo «com'è buono e bello che i fratelli vivano insieme. E' come
rugiada dell'Ermon, che scende sul monte di Sion; là il Signore dona
benedizione e vita in eterno» (-Sal 133,1-3)
[349].
* Il presente intervento è stato
tenuto dal Cardinal Joseph Ratzinger il 1° settembre 1990, in occasione del IX Meeting per l’amicizia fra i popoli a
Rimini (25 agosto – 1° settembre 1990), sul tema «L’ammiratore. Einstein.
Thomas Becket».
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