tratto da Joseph Ratzinger, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza, carità, Jaca Book, Milano 1989, Capitolo I – Fede, § 2. L'agnosticismo è una via d'uscita?, pp. 13-16.
2. L’agnosticismo è una via
d’uscita?
In
tutto ciò si aprono varchi verso la fede religiosa, si rendono visibili
somiglianze di struttura. Ma
se ora tentiamo il passaggio, la strada
ci viene sbarrata subito da un’obiezione grave e importante, che si può
formulare pressappoco così. Può
darsi che nella vita sociale dell’uomo sia impossibile che ognuno possa
«sapere» tutto l’utile e necessario alla vita e che il nostro agire si fondi
quindi sulla «fede» nel «sapere» di altri. Ma con questo noi rimaniamo nel
campo del sapere umano che in linea di principio tutti possono acquisire.
Invece,
con la fede nella rivelazione, noi
superiamo i confini del sapere propriamente umano. Anche se l’esistenza di
Dio può forse diventare un «sapere», la rivelazione e i suoi contenuti restano
fede per tutti, qualcosa che sta al di là di quanto è accessibile al nostro
sapere. Qui non esiste nessun riferimento al sapere specializzato di alcuni a
cui potersi affidare, perché conoscono immediatamente le cose in base alla
propria ricerca.
Ci
troviamo così, ancora una volta, davanti alla domanda: questa specie di fede è conciliabile con la
moderna coscienza critica? Non sa[13]rebbe più conforme all'uomo del
nostro tempo astenersi dal giudizio su queste materie e aspettare il momento in
cui la scienza avrà in mano risposte definitive anche per questo genere di
questioni?
L’atteggiamento che si esprime in simili
domande corrisponde indubbiamente alla coscienza media di un universitario di
oggi.
L’onestà del pensiero e l’umiltà davanti all’ignoto sembrano raccomandare
l’agnosticismo, mentre l’ateismo dichiarato pretende nuovamente di sapere
troppo e porta in sé chiaramente già un elemento dogmatico. Nessuno può
affermare di «sapere» in senso proprio che Dio non esiste. Si può lavorare con
l’ipotesi che Dio non esista e cercare a partire di qui di spiegarsi
l’universo. La moderna scienza della natura sta fondamentalmente sotto questo
presupposto.
Dove il metodo rispetta i suoi limiti, è
però chiaro che nel caso non può venir superato il campo dell’ipotetico e che
perfino una spiegazione ateistica in apparenza coerente dell’universo non
conduce a una certezza scientifica della non esistenza di Dio. Nessuno può afferrare sperimentalmente la
totalità dell’essere e delle sue condizioni. In questo punto noi
raggiungiamo semplicemente i limiti della «condition humaine», della
possibilità conoscitiva umana in quanto tale, e ciò non solo in rapporto alle
sue condizioni presenti, ma essenzialmente, insuperabilmente.
Per sua natura la questione di Dio non può venir costretta nei confini
della ricerca scientifica, nel senso stretto della parola. In questo senso la dichiarazione di «ateismo
scientifico» è una pretesa insensata, ieri come oggi e domani. Tanto più
però si impone il problema di sapere se la questione di Dio non superi i limiti
delle possibilità umane e in questo senso l’agnosticismo sembra sia l’unico
giusto atteggiamento dell’uomo: realistico, leale, anzi «pio» nel senso più
profondo della parola; riconoscimento di dove finiscono la nostra presa e il
nostro campo visivo, rispetto di ciò che non ci è accessibile. La nuova
religiosità del pensiero non dovrebbe forse consistere nel lasciare
l’imperscrutabile e accontentarsi di ciò che è dato a noi?
Chi intende rispondere a questa domanda da autentico credente deve guardarsi
dalla fretta. In effetti, di fronte a questa forma di [14] umiltà e di
religiosità, si impone subito l’obiezione: la sete di infinito appartiene alla stessa natura dell’uomo, anzi è addirittura la sua essenza. Il suo limite può essere unicamente
l’illimitato, e i confini della scienza non possono venire per principio
scambiati con i confini della nostra esistenza. Questo
sarebbe un’incomprensione tanto della scienza come dell’uomo. Là dove la scienza innalza la pretesa di
esaurire i limiti della conoscenza umana sconfinerebbe nel non scientifico.
Tutto questo mi sembra sì vero, ma, come già detto, a questo punto troppo
frettolosa come risposta.
Dovremmo piuttosto esaminare
pazientemente l’ipotesi dell’agnosticismo nella sua portata per verificare se
essa possa avere consistenza non solo nella scienza, ma nella vita umana. La domanda giustamente posta
all’agnosticismo suona così: il suo proposito è veramente realizzabile? Come uomini possiamo semplicemente lasciar
da parte la domanda su Dio, cioè la questione della nostra origine, del nostro
destino finale e della misura del nostro essere? Possiamo vivere in modo unicamente ipotetico
« come se Dio non esistesse », anche se forse esiste?
La questione di Dio non è per
l’uomo un problema teoretico, come ad esempio la domanda se nel sistema
periodico degli elementi ci possono essere altri elementi ignoti e così via. Al
contrario, la domanda di Dio è una questione eminentemente pratica, che ha
conseguenze in tutti i campi della nostra vita.
Se io dunque in teoria faccio valere l’agnosticismo, nella pratica devo
decidermi tra due possibilità: vivere come se Dio non ci fosse, oppure vivere
come se Dio ci fosse e come se egli fosse la realtà normativa per la mia vita.
Se scelgo la prima, ho praticamente adottato una posizione atea e messo a
base di tutta la mia vita un’ipotesi che potrebbe anche essere falsa.
Se mi decido per la seconda possibilità,
rimango anche qui in una fede puramente soggettiva, e viene subito in mente
Pascal, la cui battaglia filosofica all’inizio dell’età moderna si muoveva
interamente intorno a questa costellazione speculativa. Ma poiché alla fine
capì che la questione non si poteva
sciogliere di fatto nel puro pensiero, egli raccomandò agli agnostici di osare
con la scelta seconda e di vivere come se Dio ci fosse. Nel corso
dell’esperimento e solo in questo sarebbe arrivato alla con[15]clusione di aver
scelto giustamente [nota 3].
Comunque sia, la
luce della soluzione agnostica a un esame più attento non regge. Come pura
teoria sembra molto brillante, ma l’agnosticismo è per sua natura più che una
teoria: è in gioco la pratica della vita. E quando si tenta di «praticarlo»
nella sua vera portata, esso sfugge come una bolla di sapone; si scioglie,
perché non si può sfuggire alla scelta che esso vorrebbe evitare. Davanti
alla questione di Dio non si dà neutralità per l’uomo. Questi può solo dire sì
o no, e questo inoltre con tutte le conseguenze fin nelle vicende più piccole
della vita.
[nota 3] Pensées 451, 4, nell’edizione
curata da J. Chevalier per la Bibliotèque de la Pléiade, Paris 1954, pp.
1215s,; cfr. al riguardo R. Guardini,
Christliches Bewusstsein. Versuche über
Pascal, München 19502, pp. 199-246.
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