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Meditazione sullo Spirito Santo (da 'Il Dio di Gesù Cristo')


tratto da Joseph Ratzinger, Il Dio di Gesù Cristo. Meditazioni sul Dio Uno e Trino, Queriniana, Brescia 20114, parte 3. – Lo Spirito Santo, pp. 117-129


3. Lo Spirito Santo

Noi crediamo in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, in Dio uno trino.
Mentre, però, sul Padre e sul Figlio possiamo dire relativamente molto, lo Spirito Santo è rimasto largamente il Dio sconosciuto. Nella storia della chiesa ci si è continuamente appellati a lui, questo è certo, ma è anche vero che i movimenti che ne sono nati hanno contribuito notevolmente a far sì che il discorso sullo Spirito Santo, nella chiesa, sia diventato ancor più sommesso.

Incominciò con Mani (216-274, o 277 d.C.), il padre del manicheismo, una corrente che si spacciava per incarnazione del Paraclito – lo Spirito Santo – e vantava così anche una superiorità su Cristo stesso[nota 1]. Da qui un’ombra oscura attraversa l’intera storia della chiesa del Medioe[117]vo: una santità che si presume più elevata, la cui ambizione, nonostante tutti i rifiuti, ha offuscato la fede della cristianità, diventando per essa un fardello di cui sarà difficile sbarazzarsi.

Da altre radici si diffuse nella chiesa dell’Asia Minore, già nel II secolo, il movimento spirituale del montanismo, il cui rappresentante più noto in Occidente fu il grande scrittore ecclesiastico Tertulliano (circa 160 – dopo 220).
Dal messaggio dei montanisti derivò quel disprezzo per la chiesa dei peccatori che sfociò poi nell’arroganza e nel più fosco moralismo.

Fu un pio abate dell’Italia meridionale, nel XII secolo, a formulare la forma più affascinante di nostalgia dello Spirito Santo: Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202). Gioacchino avvertiva profondamente le insufficienze che caratterizzavano la chiesa del tempo: l’odio che divideva ebrei e cristiani, antico e nuovo popolo di Dio; l’ostilità fra chiesa d’Oriente e chiesa d’Occidente; la gelosia fra clero e laicato; l’autoesaltazione e la brama di potere degli uomini di chiesa.
Da qui derivò la sua convinzione che questa non potesse venire considerata la forma definitiva della chiesa di Dio sulla terra e che prima del ritorno di Cristo, prima della fine del mondo, su questa terra e in questa storia fosse necessario un nuovo intervento di Dio.
Gioacchino aspirava a una chiesa che corrispondesse veramente al Nuovo Testamento e alle promesse dei profeti, ma anche al desiderio più profondo [118]  dell’uomo: una chiesa nella quale convivessero, nello spirito della verità e dell’amore, senza leggi e precetti, ebrei e pagani, Oriente e Occidente, clero e laicato, affinché la volontà di Dio si realizzasse davvero pienamente tra le creature umane.
Da qui nacque la sua nuova visione, secondo la quale, a partire dall’immagine trinitaria di Dio, egli cercò di spiegare il ritmo della storia: dopo il regno del Padre nell’Antico Testamento e il regno del Figlio nella chiesa gerarchica, verso il 1260 sarebbe dovuto venire un terzo regno, quello dello Spirito Santo, un regno di libertà e pace universale.

Per Gioacchino non si trattava di mere speculazioni sul futuro, di fughe dall’amara realtà del presente. Per lui questa visione aveva dei risvolti eminentemente pratici, in quanto egli credeva che la linea di demarcazione fra i singoli periodi storici non fosse netta, ma che ci fossero delle continue intersecazioni, dove il nuovo si sovrapponeva al vecchio: la fede e la pietà dei profeti anticipavano per lui la presenza della nuova alleanza già nell’antica, nello stile di vita dei monaci la chiesa futura penetrava già nella chiesa del presente.
Questo significa due cose: significa innanzitutto che si può andare incontro alla realtà ventura, che nel movimento della storia ci si può, per così dire, porre sulla scala mobile che porta nel futuro. Egli stesso tentò di farlo, fondando una nuova comunità monastica che prefigurasse [119] in certo qual modo i tempi nuovi, che aprisse a essi la porta.
In secondo luogo emerge in questo però anche l’immagine di futuro che egli intendeva. Il ‘vangelo eterno’ di cui egli parlava, richiamandosi ad Ap 14,6, non era alla fine altro che il vangelo di Gesù Cristo. L’opera dello Spirito Santo e del suo vangelo consisteva perciò semplicemente nel fatto che il primo vangelo, il Sermone del monte, venisse ora finalmente applicato in tutta la sua interezza. Il vangelo preso alla lettera sarà dunque il cristianesimo totalmente spirituale – questa è la sua visione.

Da allora in poi la speranza che Gioacchino aveva riposto nell’avvento definitivo dello Spirito Santo non lascerà più gli uomini in pace. All’inizio furono i Francescani a vedere nel loro movimento l’inizio di una nuova chiesa. Nelle lotte che proprio questa esigenza scatenò fra le diverse correnti dell’ordine, la speranza perse tuttavia ben presto il suo splendore spirituale, per tramutarsi – nei gruppi che in Italia combattevano per un rinnovamento politico – in un duro ideale di lotta. Non è qui il caso di ripercorrere in dettaglio la storia successiva di queste idee.

Ricorderemo soltanto che, di mediazione in mediazione, Hitler e Mussolini ripresero le parole-chiave di ‘Terzo Reich’ e ‘Duce’ dall’eredità di Gioacchino. Ma anche il marxismo, passando attraverso Hegel, si ricollegò ad alcuni elementi di questa visione: l’idea di una storia che avanza [120] trionfalmente, che in quanto tale giunge infallibilmente al suo scopo, l’idea quindi di una salvezza definitiva che si realizza nella storia[nota 2].

Questa ampia riflessione su Gioacchino non è inutile, poiché ci permette di vedere chiaramente possibilità e pericoli del discorso sullo Spirito Santo.

In Gioacchino c’è qualcosa che segna una via, nella disponibilità a dare inizio, qui e ora, a un cristianesimo veramente ‘spirituale’, e a cercare questo cristianesimo spirituale non al di fuori della parola, ma nella profondità più intima della parola stessa.
Giustamente, quindi, i primi Francescani videro nella dottrina di Gioacchino una prefigurazione profetica di san Francesco. E in effetti Francesco ha dato a Gioacchino la risposta più bella, anzi l’unica [121] corretta, riuscendo a distinguere, nella propria vita, ciò che viene dallo Spirito da ciò che ha altra origine, anche se i successori non riusciranno a seguirlo su questa via.
Il suo motto era: «Sine glossa», cioè vivere la Sacra Scrittura, specialmente il Discorso della montagna, senza distinzioni e deviazioni, lasciandosi afferrare dalla parola di Dio. Ciò che in Gioacchino è deformato da ogni genere di speculazioni, in Francesco d’Assisi diventa completamente chiaro e questo è il motivo dell’enorme influenza che egli ha esercitato lungo il corso dei secoli: il cristianesimo spirituale è il cristianesimo della parola vissuta.
Lo Spirito abita nella parola e non al di fuori di essa, la parola è il luogo dello Spirito e Gesù è la fonte dello Spirito. Quanto più ci accostiamo a Gesù, tanto più realmente ci accostiamo allo Spirito e lo Spirito entra in noi. Vengono così superati anche gli aspetti deformanti della dottrina di Gioacchino: l’utopia di una chiesa che si allontana e si colloca al di sopra del Figlio, e l’aspettativa irrazionale che si spaccia per un programma reale e razionale.

Non abbiamo con ciò forse già abbozzato una teologia dello Spirito Santo?
Abbiamo detto che non è possibile scorgere lo Spirito allontanandosi dal Figlio, ma soltanto immergendosi in lui. Giovanni lo ha reso con un’immagine eloquente nel suo racconto della prima apparizione del Risorto agli undici: lo Spirito è il respiro del [122] Figlio. Lo si riceve quando ci si avvicina al Figlio tanto da sentire il suo respiro, tanto da permettere a Gesù di alitare su di noi (Gv 20,19-23).

In modo più pertinente di Gioacchino, è dunque sant’Ireneo che ha delineato la logica trinitaria che governa la storia.
Per lui questa logica non consiste in un ascendere dal Padre al Figlio e infine giungere alla liberazione, allo Spirito. Il movimento delle Persone, invece, all’interno della storia va in direzione opposta: lo Spirito sta all’inizio, in quanto orientamento e guida dell’uomo appena percepibile; egli conduce al Figlio e, attraverso il Figlio, al Padre…

Con questi concetti concorda ciò che i Padri cercarono di dire sulla natura dello Spirito Santo: il nome della terza Persona divina, diversamente rispetto a ‘Padre’ e ‘Figlio’, non esprime qualcosa di specifico, ma nomina semplicemente proprio ciò che è comune in Dio.
Ma è proprio così che emerge anche ciò che è ‘proprio’ della terza Persona: lo Spirito è ciò che è comune, l’unità fra Padre e Figlio, l’unità in persona. Padre e Figlio sono una-cosa-sola uscendo da se stessi; nel Terzo, nella fecondità del donarsi, sono Uno.

Ovviamente queste affermazioni non possono mai essere altro che dei tentativi di approccio alla realtà divina. Noi possiamo conoscere, infatti, lo Spirito soltanto negli effetti che egli produce. Coerentemente la Scrittura non ci descrive mai lo Spirito Santo per quello che in se stesso è, [123] ma parla soltanto del modo in cui viene a noi e di come si distingue da tutti gli altri spiriti.

Analizziamo alcuni di questi testi.
Nel vangelo di Giovanni (14,22-31) Giuda Taddeo pone al Signore una domanda che noi tutti, in una maniera o nell’altra, ci siamo posti.
Ha appreso dalla parola del Signore che egli non si manifesterà quale Risorto se non ai discepoli. Per cui chiede: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?» (v. 22). La risposta di Gesù sembra eludere l’interrogativo: «Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». In verità è proprio questa la risposta che dev’essere data alla domanda del discepolo e al problema che noi ci poniamo riguardo allo Spirito. Non si può indicare lo Spirito di Dio così come si indica una cosa. Lo può vedere soltanto chi lo porta in sé. Qui vedere e venire, vedere e abitare sono inscindibilmente congiunti tra loro. Lo Spirito Santo abita nella parola di Gesù, ma questa parola non la si ottiene solo parlandone, ma osservandola, vivendola. Egli vive nella parola vissuta, lui che è la vita della Parola.

La chiesa antica ha approfondito questa idea richiamandosi soprattutto al Sal 67, che ha letto come un inno sull’ascensione di Cristo e sull’invio dello Spirito Santo.
Nel contesto di tale lettura dell’Antico Testamento essa comprende l’a[124]scensione di Mosè quale un’immagine dell’avvenimento di Pentecoste. Mosè non è salito soltanto in modo esteriore, ma anche nel proprio intimo. Egli si è esposto alla solitudine con Dio. Proprio affrontando l’altezza, la nube, il solitario faccia-a-faccia con Dio, fu in grado di portare agli uomini lo Spirito nella forma della parola che guida. Lo Spirito è frutto della sua ascesa, delle sue solitudini.
Considerata alla luce del Nuovo Testamento, questa via di Mosè, come anche il suo dono dello Spirito, la Parola della Legge, è soltanto ombra e prefigurazione di ciò che avvenne in Gesù. Egli ha realmente inserito la natura umana, la nostra carne, nella comunione con Dio, l’ha portata, attraversando la nube della morte, fino al suo cospetto. Da questa ascensione venne lo Spirito: egli è il frutto della vittoria di Gesù, il frutto del suo amore – della sua croce.

Di nuovo possiamo allora tentare di balbettare qualcosa sul mistero intimo di Dio: Padre e Figlio sono il movimento del puro donarsi, del puro e reciproco consegnarsi. In questo movimento essi sono fecondi e la loro fecondità è la loro unità, il loro pieno essere-uno, senza alcun detrimento o confusione.
Per noi uomini donare, consegnarsi, significa sempre anche croce. Il mistero trinitario si traduce, nel mondo, in un mistero della croce: lì è la fecondità dalla quale scaturisce lo Spirito Santo. [125]

Il fatto che lo Spirito non abiti accanto alla Parola, ma in essa, Giovanni lo ha espressamente sottolineato dicendo che la sua attività peculiare nella storia è quella del ‘ricordare’. Lo Spirito Santo non parla a partire da ciò che è suo, ma dal «ciò che è mio» di Gesù. Lo si riconosce nella fedeltà alla Parola già proferita. Qui Giovanni ha costruito una dottrina dello Spirito in stretto parallelismo con la cristologia. Anche Cristo, infatti, è caratterizzato dal fatto che può dire: «La mia dottrina non è mia» (7,16). Questo suo auto-disinteresse, questo suo stare-non-per-se stesso costituisce anche la sua autentica legittimazione di fronte al mondo. Viceversa, l’Anticristo può essere allora conosciuto per il fatto che parla in nome proprio.
Lo stesso vale per lo Spirito Santo: si dimostra Spirito trinitario, Spirito del Dio uno e tripersonale, proprio perché non compare come un Io separato e separabile, ma scompare nel Figlio e nel Padre.
L’impossibilità di sviluppare una pneumatologia speciale deriva appunto dalla sua natura. Giovanni ha formulato tali affermazioni anche per dirimere le controversie, a quel tempo così accese, su ciò che è Spirito e ciò che non lo è. I grandi capi della gnosi esercitavano una grande influenza perché parlavano in nome proprio, si facevano un nome. Avevano influenza per il fatto che proponevano qualcosa di nuovo e di diverso da ciò che veniva annunciato dalla Parola, per esempio che [126] Gesù non era in realtà morto, ma continuava a ballare con i suoi discepoli mentre gli uomini pensavano che fosse stato appeso alla croce. Contro queste novità gnostiche, contro un simile discorrere in nome proprio, il quarto vangelo propone intenzionalmente il plurale della chiesa: colui che parla scompare nel ‘noi’ ecclesiale, il solo capace di conferire all’uomo il suo volto e di preservarlo dalla distruzione.
Troviamo lo stesso modello nelle lettere giovannee: l’autore si chiama semplicemente il ‘presbitero’; il suo antagonista è il ‘seduttore’, proágōn, «chi va oltre» (2 Gv 9).
 L’intero vangelo di Giovanni (come del resto le lettere) non intende essere altro che un atto del ricordare, e quindi un vangelo pneumatico. Esso è fecondo, nuovo, profondo, perché non cerca nuovi sistemi, ma si limita a ricordare.

L’essenza dello Spirito Santo, in quanto unità tra Padre e Figlio, sta appunto in questo altruismo del ricordare, che è il vero rinnovamento. La chiesa pneumatica è la chiesa che, nel ricordo, comprende più in profondità, si immerge più profondamente nella parola e così diventa più vitale e ricca. Il vero altruismo, l’uscire da se stessi per immergersi nel tutto, è appunto la connotazione dello Spirito in quanto immagine del suo modello trinitario.

Diamo un rapido sguardo anche agli scritti paolini. Paolo si trova, nella comunità di Corinto, di fronte alla gioia quasi infantile per i doni [127] dello Spirito, la quale, però, incomincia a diventare una minaccia per l’autenticità. Ciascuno cerca di sopraffare l’altro e l’attenzione è sempre maggiormente rivolta agli elementi esteriori. Ma in questo modo si finisce per diventare una setta.
Paolo afferma, invece, che soltanto un dono è importante: l’amore (1 Cor 13). Senza di esso tutto il resto è nulla. L’amore, però, si esprime nell’unità, che è il contrario della setta. Si manifesta nel costruire e nel sopportare. Chi edifica è lo Spirito Santo. Dove però si danno delle lacerazioni, dove si alimenta amarezza, invidia, ostilità, lì non c’è Spirito Santo. Una conoscenza priva d’amore non viene da lui. Qui il pensiero di Paolo si intreccia con quello di Giovanni, per il quale l’amore si manifesta nel rimanere. In definitiva la dottrina paolina del Corpo di Cristo non dice altro[nota 3].

Anche su un altro punto Paolo e Giovanni convergono sostanzialmente. Giovanni qualifica lo Spirito come il ‘Paraclito’, che significa: avvo[128]cato, soccorritore, difensore, consolatore. Egli si pone dunque contro il diavolo, che è l’‘accusatore’, il calunniatore: «L’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte» (Ap 12,10). Lo Spirito è il ‘sì’, come lo è Cristo. A ciò corrisponde il forte accento che Paolo pone sulla gioia.

Lo Spirito – potremmo allora dire – è Spirito della gioia, del vangelo.
Una delle regole fondamentali per il discernimento degli spiriti potrebbe essere dunque la seguente: dove manca la gioia, dove l’umorismo muore, qui non c’è nemmeno lo Spirito Santo, lo Spirito di Gesù Cristo. E viceversa: la gioia è un segno della grazia. Chi è profondamente sereno, chi ha sofferto senza per questo perdere la gioia, costui non è lontano dal Dio del vangelo, dallo Spirito di Dio, che è lo Spirito della gioia eterna. [129]


[nota 1] 1 Su Mani e il manicheismo, A. Adam, Lehrbuch der Dogmengeschichte I, Gütersloh 1965, 207-210; H.-Ch. Puech, in LThK VI2 , 1351-1355. [117]
[nota 2] Su Gioacchino da Fiore e la sua influenza, vedi specialmente E. Benz, Ecclesia spiritualis: Kirchenidee und Geschichtstheologie der franziskanischen Reformation, Stuttgart 1934; K. Löwith, Weltgeschichte und Heilsgeschehen, Stuttgart 1953, 136-147 [trad. it., Significato e fine della storia, I presupposti teologici della filosofia della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1963]; A. Dempf, Sacrum Imperium. La filosofia della storia e dello stato nel Medioevo e nella rinascenza politica, Principato, Messina-Milano 1933, specie 209ss. Per l’incidenza di queste idee sulla teologia francescana e le modifiche che esse hanno subìto in tale contesto, vedi anche J.  Ratzinger, San Bonaventura. La teologia della storia, Nardini, Firenze 1991. Per un confronto con l’opposta strutturazione teologico-storica dello schema impiegato da Ireneo, vedi la tesi di laurea, pubblicata in Münsterer Theol. Studien, di R. Tremblay, La manifestation et la vision de Dieu selon St. Irénée de Lyon. [121]
[nota 3] Per un approfondimento del tema, vedi il mio contributo: Lo Spirito Santo come “communio”. Sul rapporto fra pneumatologia e spiritualità in Agostino, in C. Heitmann – H. Mühlen (edd.), La riscoperta dello Spirito. Esperienza e teologia dello Spirito Santo, Jaca Book, Milano 1977, 251s.; utile comunque la consultazione dei diversi articoli contenuti nel volume, che illustrano sempre il tema dello Spirito Santo. Per la pneumatologia, importante l’opera di M.J. Le Guillou, Les témoins sont parmi nous. L’expérience de Dieu dans l’Esprit Saint, Paris 1976. [128]

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