tratto da Joseph
Ratzinger, Introduzione allo
spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, Parte IV - Forma liturgica, Cap. II – Il corpo e la liturgia, § 2. Il segno della croce, pp. 173-180.
2. Il
segno della croce
Il gesto fondamentale della preghiera del cristiano è e
resta il segno della croce. È una professione, espressa mediante il corpo, di
fede in Cristo Crocifisso, secondo le parole programmatiche di san Paolo: «Noi annunciamo Cristo crocifisso, scandalo
per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia
Giudei che Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1, 23ss). E ancora: «Io non volli sapere tra di voi se non
Cristo, e questi crocifisso» (2,2).
Segnare se stessi con il segno della croce è un sì
visibile e pubblico a Colui che ha sofferto per noi; a Colui che nel corpo ha
reso visibile l'amore di Dio fino all’estremo; al Dio che non governa mediante la distruzione, ma
attraverso l’umiltà della sofferenza e dell'amore, che è più forte di tutta la
potenza del mondo e più saggia di tutta l’intelligenza e di tutti i calcoli
dell’uomo.
Il segno della croce è una professione di fede: io credo
in Colui che ha sofferto per me e che è risorto; in Colui che ha trasformato il segno dello scandalo in un
segno di speranza e dell'amore presente di Dio per noi. La professione di
fede è una professione di speranza: credo in Colui che nella sua debolezza è
l’Onnipotente; in Colui che, proprio nella apparente assenza ed estrema
debolezza, può salvarmi e mi salverà.
Nel momento in cui noi ci segniamo con la croce, ci
poniamo sotto [173] la protezione della
croce, la teniamo davanti a noi come uno scudo che ci protegge nelle tribolazioni
del nostre giornate e ci dà il coraggio per andare avanti. La prendiamo come un segnale che ci indica la strade da
seguire: «Chi vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua
croce su di sé e mi segua» (Mc 8,34). La croce ci mostra la
strada della vita: la sequela di Cristo.
Noi leghiamo il
segno della croce con la professione di fede nel Dio Trinità – Padre, Figlio e
Spirito Santo. Esso diventa così ricordo del
battesimo, in maniera ancor più chiara quando lo accompagniamo con l’uso
dell’acqua benedetta. La croce è un segno della passione, ma è allo stesso tempo
anche segno della resurrezione; essa è, per così dire, il bastone della salvezza che Dio ci porge, il ponte su cui
superiamo l’abisso della morte e tutte le minacce del male e possiamo giungere
fino a Lui.
Essa è resa presente nel battesimo, nel quale diventiamo
contemporanei alla croce e alla resurrezione di Cristo (Rm 6, 1-14). Ogni volta che
ci facciamo il segno della croce rinnoviamo il nostro battesimo; Cristo
dalla croce ci attira fino a se stesso (Gv
12, 32) e fin dentro la comunione con il Dio vivente. Poiché il battesimo e il segno della croce,
che lo rappresenta e rinnova, sono
soprattutto un evento di Dio: lo Spirito Santo ci conduce a Cristo, e Cristo ci
apre la porta verso il Padre. Dio non è più il Dio sconosciuto; ha un nome.
Possiamo chiamarlo, e Lui chiama noi.
Possiamo quindi dire che nel segno della croce, nella sua invocazione trinitaria è
riassunta tutta l’essenza dell’avvenimento cristiano, è presente il tratto distintivo
del cristianesimo. Nello stesso tempo, però, esso ci apre la strada anche
nell’ampiezza della storia [174] delle religioni e nel messaggio di Dio
presente nella creazione.
Già nel 1873 vennero scoperte sul monte degli Ulivi delle
iscrizioni sepolcrali greche ed ebraiche risalenti all’incirca al tempo di
Gesù, che erano accompagnate dal segno della croce; gli archeologi ne dedussero
che si trattava di cristiani delle primissime origini. Intorno al 1945 vennero
fatte numerose scoperte di tombe giudaiche recanti il segno della croce,
risalenti più o meno al primo secolo dopo Cristo.
Tali scoperte non consentivano più di ritenere che si
trattasse di cristiani della prima generazione; si dovette piuttosto riconoscere che i segni della croce erano presenti
anche in ambito giudaico. Che senso aveva tutto questo? La chiave
interpretativa era fornita da Ez
9,4ss.
Nella visione ivi descritta Dio stesso dice al suo
messaggero vestito di lino che porta al fianco la borsa da scriba: «Vai in mezzo alla città e iscrivi un Tau sulla fronte di tutti gli uomini che sospirano e
piangono per tutti gli abomini che vi si compiono».
Nella catastrofe spaventosa che si preannuncia coloro che
non si riconoscono nel peccato del mondo, ma soffrono per esso a motivo di Dio –
soffrono senza potere fare nulla, ma sono appunto lontani dal peccato – devono essere
segnati con l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, la Tau, che
veniva scritta a forma di croce (T oppure + oppure X). La Tau, che in effetti aveva la forma di una croce, diventa il sigillo
della proprietà di Dio. Risponde al desiderio e al dolore dell’uomo per Dio e lo mette
così sotto la particolare protezione di Dio.
E. Dinkler ha potuto dimostrare che la
stigmatizzazione cultuale – sulle mani o sulla fronte – è preannunciata in
diversi modi nell'Antico Testamento e che questa usanza era nota anche in epoca
neotestamentaria; Ap 7,1-8 riprende
nel Nuovo Testamento l’idea fondamentale della visione di Ezechiele. I reperti
tombali, unitamente ai te[175]sti contemporanei, mostrano che in determina
circoli del giudaismo la Tau era diffusa come segno santo, come segno della professione di fede nel Dio di
Israele e, allo stesso tempo, come segno di speranza nella sua protezione.
Dinkler riassume i suoi studi nell’affermazione che nel Tau a forma di croce è «riassunta un’intera
professione di fede in un
solo segno», che le «realtà credute, sperate, sono riprese in un’immagine
visibile. Un’immagine, certamente, che e più di uno specchio, da cui piuttosto
si spera una forza capace di salvezza...» (E. Dinkler,
Signum crucis. Aufsätze zum Neuen
Testament und zur christlichen Archäologie, J. CB. Mohr, Tubinga 1967,
soprattutto pp. 1-76).
Per quello che possiamo saperne finora, i cristiani non si
sono dapprima richiamati a questo simbolo giudaico, ma hanno trovato il segno
della croce a partire dal profondo della loro fede, potendovi così riconoscere
la somma di tutta la loro fede. In seguito, però, la visione di Ezechiele della
Tau salvifica e tutta la tradizione che su di essa si basava non
dovevano apparire loro come uno sguardo aperto sul futuro? Non veniva forse ora
«svelato» (cfr. 2Cor 3,18) ciò che si
era voluto intendere con questo segno misterioso? Non era ora finalmente chiaro
a chi esso apparteneva e da chi riceveva la sua forza? Non dovevano, dunque,
vedere in tutto questo una prefigurazione della croce di Cristo, che aveva
realmente dato alla Tau la forza di salvare?
[...]
«Diventerai una benedizione», aveva
detto Dio ad Abramo al principio della storia della salvezza (Gn 12, 2). In Cristo, figlio di Abramo, questa parola
è pienamente compiuta. Egli è una benedizione
per l’intera creazione e per tutti gli uomini.
La croce, che è il suo segno nel cielo e
sulla terra, doveva dunque divenire il vero gesto di benedizione dei cristiani.
Facciamo su noi stessi il segno della croce ed
entriamo così nella potenza benedicente di Gesù Cristo; tracciamo questo segno
sulle persone per cui desideriamo la benedizione; lo tracciamo anche sulle cose
che ci accompagnano nella vita e che noi vogliamo ricevere nuove dalla mano di
Gesù Cristo. Mediante la croce possiamo divenire gli uni per gli altri dei
benedicenti.
Personalmente, non dimenticherò mai con
quale devozione e con quale interiore dedizione mio padre e mia madre segnavano
noi bambini con l’acqua benedetta, facendoci il segno della croce sulla fronte,
sulla bocca e sul petto quando dovevamo partire, tanto più se poi si trattava
di un’assenza particolarmente lunga. Questa
benedizione era un gesto di accompagnamento, da cui noi ci sapevamo guidati: il
farsi visibile della preghiera dei genitori che ci seguiva e la certezza che
questa preghiera era sostenuta dalla benedizione del Redentore. La
benedizione era anche un richiamo a noi, a non uscire dallo spazio di questa
benedizione.
Benedire è un gesto sacerdotale: in quel segno della croce
percepivamo il sacerdozio dei genitori, la sua particolare dignità e la sua
forza. Penso che questo gesto del benedire, come piena e benevola espressione
del sacerdozio universale di tutti i battezzati, debba tornare molto più
fortemente a far parte della vita quotidiana ed abbeverarla con l’energia
dell’amore che proviene dal Signore [180].
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