Tratto da Joseph Ratzinger, Introduzione
al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico. Con un nuovo saggio introduttivo, Excursus – Strutture dell’essere-cristiano, Queriniana, Brescia
200715, pp. 256-259.
6. Il
primato del ricevere e la positività cristiana
L’uomo viene
redento grazie alla croce; il Crocifisso, in quanto il totalmente aperto, è la
vera redenzione dell’uomo. Abbiamo già
cercato, in [256] un diverso contesto, di rendere comprensibile per noi oggi
quest’affermazione centrale della fede cristiana. Esaminiamola ora non nel suo
contenuto, bensì nella sua struttura: essa esprime un primato del ricevere sul fare, sulle proprie prestazioni, là
dove per l’uomo si tratta della realtà ultima. Qui sta forse il più profondo punto di separazione tra il ‘principio
della speranza’ cristiano e la sua trasformazione marxista. Per la verità
anche il principio marxista si basa su un’idea di passività, in quanto – stando
a esso – il proletariato sofferente è il redentore del mondo. Ma questo
travaglio del proletariato, che dovrebbe finalmente portare al cambiamento
costituito dalla società senza classi, deve concretizzarsi nella forma attiva
della lotta di classe. Solo in questo modo esso potrà ‘redimere’, togliendo il
potere alla classe dominante e conducendo all’uguaglianza tra tutti gli uomini.
Ora,
se la croce di
Cristo è un patire-per, la passione del proletariato invece, dal punto di vista
marxista, si pone come una lotta-contro; mentre la croce è essenzialmente opera
di un singolo per il tutto, l’altra passione è invece essenzialmente opera di
una massa, organizzata in partito, per se stessa. Sicché, nonostante
la vicinanza nel punto di partenza, le due strade corrono però in direzioni
opposte.
A partire dalla fede cristiana, quindi, resta assodato:
l’uomo non raggiunge veramente se stesso grazie a ciò che fa, bensì grazie a
ciò che riceve. Egli deve attendere il dono dell’amore, e non si può accogliere
l’amore se non come dono. Non lo si può ‘fare’ da soli, senza l’altro; bisogna
attenderlo, permettere che ci venga dato. E non si può divenire integralmente uomini fuorché venendo amati, lasciandosi amare. Il fatto che l’amore rappresenta per
l’uomo la più alta possibilità e al contempo la più profonda necessità, e che
ciò che è più necessario è contemporaneamente la cosa più libera e inesigibile,
significa appunto che l’uomo, per la sua
“salvezza”, è rinviato a un ricevere. Qualora egli rifiuti di accettare tale
dono, distrugge se stesso. Un’attività che si ponesse come assoluta, che
intendesse l’essere uomini co[257]me
frutto di auto-prestazione, sarebbe una contraddizione rispetto alla propria
natura.
Louis
Evely ha formulato questa idea in maniera grandiosa: «L’intera storia
dell’umanità è stata fuorviata, ha subìto una frattura per colpa della falsa
idea di Dio che Adamo si è fatta. Egli ha voluto divenire uguale a Dio. Spero
che non abbiate mai visto in questo il peccato di Adamo... Non l’aveva forse
invitato a questo Dio stesso? Solo che
Adamo si è ingannato quanto al modello. Pensò che Dio fosse un essere
indipendente, autonomo, autosufficiente; e per diventare come lui, si è
ribellato, commettendo una disobbedienza. Ma allorché Dio si rivelò, allorché
Dio volle mostrare chi veramente era, si manifestò come amore, tenerezza,
effusione di se stesso, infinito compiacersi in un altro. Simpatia, dipendenza.
Dio si mostrò obbediente, obbediente sino alla morte. Credendo di diventare
Dio, Adamo si allontanò totalmente da lui. Si ritrasse nella solitudine, mentre
Dio era comunione» [nota 48].
Tutto ciò significa indubbiamente una relativizzazione
delle opere, del fare.
La lotta di Paolo contro la «giustizia basata sulle opere» va compresa a
partire da qui. Bisogna però soggiungere che, in questo classificare l’operare umano come grandezza solo penultima,
sta anche la sua profonda liberazione: l’attività dell’uomo può ora compiersi
in modo tranquillo, con quella scioltezza e libertà che si addice a ciò che è
penultimo. Il primato del ricevere non intende affatto condannare l’uomo alla
passività; non dice che l’uomo possa ora starsene a braccia conserte, come
ci rinfaccia il marxismo. Al contrario, esso ci dà piuttosto la possibilità, con
atteggiamento di responsabilità e al contempo senza convulsa agitazione, di
affrontare sereni e liberi le cose di questo mondo, mettendole al servizio dell’amore
che redime. [258]
Ma
c’è un’altra conseguenza, che scaturisce da questo punto di partenza. Il primato del ricevere include la positività cristiana e
ne dimostra l’intima necessità. Abbiamo constatato come l’uomo non trae da sé ciò che gli è più
proprio; questo gli deve pervenire come ciò che non è stato fatto da lui, che
non è un suo prodotto, bensì come una libertà che gli sta di fronte e che a lui
si dona. Ora, se le cose stanno così, vuol dire anche
che il nostro rapporto con Dio non può, in definitiva, dipendere da un nostro
progetto, da una conoscenza speculativa, ma richiede la positività di ciò che
ci sta di fronte, che giunge a noi come un dono da accogliere. A me
pare che, partendo da qui, si possa realizzare, per così dire, la quadratura
del cerchio della teologia, ossia dimostrare l’interna necessità dell’apparente
casualità storica dell’essere-cristiano, la necessità della sua positività, per
noi scandalosa, in quanto evento che accade dall’esterno. L’antitesi, così
energicamente sottolineata da Lessing, tra «vérité
de fait» (casuale verità di fatto) e «vérité
de raison» (necessaria verità di ragione) è in questo modo superabile. Ciò
che è casuale, esterno, è ciò che è necessario all’uomo; solo nel provenire
dall’esterno si dischiude il suo interno. L’incognito di Dio, in quanto uomo
nella storia, è una ‘necessità’ – insieme con la necessità della libertà.
[nota 48] L. Evely, Manifest der Liebe. Das Vaterunser, Freiburg 19613, 26 [trad. it., Padre nostro. Alle sorgenti della nostra
fraternità. Riflessioni, Ancora, Milano 19695]; cfr. Y. Congar, Le vie del Dio vivo. Teologia e vita spirituale, Morcelliana,
Brescia 1965, 81s.
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