tratto
da Joseph Ratzinger, Chici aiuta a vivere? Su Dio e l’uomo,
Queriniana, Brescia 2006, parte 5. -
Rispondere alla speranza, § 2. A che scopo ancora il cristianesimo?, pp. 152-159. Pubblicato originariamente in Joseph Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, pp. 359-365 [trad.
di Gianni Poletti].
2. A che scopo ancora il
cristianesimo?
Risuona nei
nostri orecchi l’affermazione, sempre più spontanea, che oggi la fede della
chiesa non serve più a nulla.
Definire tradizionale una realtà
equivale ovunque, ormai, a ritenerla sorpassata e priva di importanza. E la
chiesa vive della tradizione di ciò che essa ha ricevuto dall’inizio e sembra,
perciò, nella forma almeno che ha avuto sinora, non avere davanti a sé più
alcuna prospettiva.
Un discorso del
genere non eserciterebbe un simile potere, se non poggiasse su di
un’esperienza, alla quale è difficile potersi sottrarre: in primo luogo, la sensazione che tutto
si trasforma nel mondo; esso sembra mutarsi sempre più in fretta, con una
radicalità tale che nessuno dei criteri abituali regge più e unicamente strade
totalmente nuove possono soccorrere un’umanità totalmente trasformata; accanto
a questo, in secondo luogo, ci assale l’esperienza dell’inutilità del cristianesimo: esso
non riesce a strappare l’uomo dalla sua miseria, e per molti si riduce così a
una mera lusinga, a una redenzione apparente che non tocca la realtà.
In
effetti, se non si partecipa all’esperienza cristiana, è impossibile esprimere
un giudizio diverso da questo. Si incomincia allora a vergognarsi del messaggio
cristiano e si vogliono suggerire dei risultati tangibili: interventi sociali
ed economici, che nessuno può contestare e che liberano apertamente l’uomo, lo
redimono dalla sua miseria. Intanto, la necessità cresce con ritmo più veloce
degli aiuti che le vengono contrapposti; col ripiegare sul tangibile, con cui si vuol far
vergognosamente dimenticare una tradizione e si vuol spie[152]gare il
cristianesimo come parte di un moderno lavoro di umanizzazione, aumenta
contemporaneamente la disunione della chiesa: essa diviene così per
tutti ancor più infelice, ancor più disperata, ancor più problematica.
Poco
sembra rimanere del lieto messaggio. Vi sono subentrati diverbi e situazioni
critiche. Qualche tempo fa il cardinal Döpfner, per spiegare il disagio che si
diffonde nella chiesa d’oggi, l’ha paragonata a un cantiere; uno spirito
critico ha aggiunto che sembra un cantiere dove è andato perduto il progetto e
ciascuno continua a fabbricare di proprio gusto: il risultato è evidente.
A che scopo ancora il cristianesimo? In luogo della
redenzione proveniente dalla fede sono apparse oggi due strade, per le quali
gli uomini tentano di redimersi: quella politico-economico-sociale e quella
psicologica.
Da un lato, la società del
benessere va sempre più alla ricerca di quei confessori profani che, con la
loro conoscenza scientifica dell’anima umana, dovrebbero riordinare l’esistenza
scossa e svuotata: si
vuol riscoprire ciò che è amore, ciò che è parola, tutto ciò che è originario
dell’uomo. Ma sono veramente di aiuto questi medici? Essi possono dire come
funzionano le singole forze dell’anima umana, ma non a che scopo.
La
dissociazione dell’anima, però, deriva proprio dal fatto che le sue forze
agiscono a vuoto. Proprio osservando questi sforzi, si capisce che l’anima umana è
fatta in maniera tale che non si spiega da se stessa. Non è
congegnata come un orologio, come un tutto chiuso in sé, che funziona sapendo a
che parte spetta ogni singolo pezzo. Al contrario, essa vive in un ciclo
aperto, meglio, in una parabola aperta, e non se ne cava nulla senza il punto
di riferimento che sta al di fuori di essa.
S’impone
qui un’immagine di Agostino: l’esistenza umana è
ordinata in modo che Dio costituisce il punto di costruzione, al quale essa è
fissata; se quest’aggancio superiore va bene, allora anche le altre parti
restano unite in una compagine armonica; ma se si scioglie, allora anche tutto
il resto cade in rovina e non rimangono che pezzi. [153]
Ma
facciamo un passo alla volta.
Accanto alla redenzione psicologica, vi è quella
socio-economica, la via della politica totale. Tutto è politica, sentiamo dire oggi;
pertanto, solo la cosciente politicizzazione di chiesa, fede e liturgia può
dischiudere la strada verso il futuro e ‘redimere’ l’uomo. Chi osserva l’enorme
bisogno delle genti dell’India, dell’Indocina e dei quartieri poveri delle
grandi città dell’America settentrionale e meridionale, chi avverte come il
processo di industrializzazione programma in maniera crescente l’uomo e
minaccia di togliergli la sua anima, costui non sottovaluterà sicuramente
l’importanza della politica per la salvezza dell’uomo. Comprenderà il perché la
chiesa, fin dall’inizio – concorde in questo con la sinagoga – ha visto nella
sfera politica un settore della salvezza dell’uomo e ha elevato la sua
preghiera per i governanti del mondo.
Esiste quindi un impegno politico del cristiano; se non
l’assolve, egli sottrae alla sua fede il carattere di realtà. La rettitudine e
la serietà della fede si manifestano anche nella sua capacità di una positiva
azione politica e di un’opposizione politica, dove è necessario.
La preoccupazione politica è necessaria per la salvezza
dell’uomo. Ma la politica totale
sarebbe la sciagura sicura dell’uomo. L’uomo ha bisogno di pane per la sua
salvezza, ma non viene salvato unicamente dal pane; la giusta distribuzione del
potere riguarda la sua salvezza, ma la sua liberazione non può derivare da una
ridistribuzione di questo genere.
Esiste
un’interpretazione
politico-economica dell’Antico Testamento, per la quale la salvezza
risiederebbe nella creazione di benessere e di sicurezza. La storia della tentazione di Gesù
qualifica questo concetto di redenzione come idea di Satana. Dietro l’invito
che Satana ha rivolto a Gesù di trasformare le pietre in pane, ed egli gli
avrebbe offerto il governo di tutti i regni del mondo, si celano concezioni
realissime di quel tempo: il Messia doveva provare la propria identità
dando in abbondanza pane a tutti ed erigendo, sotto il segno del suo potere
politico, un regno mondiale di pace. Gesù non pone fine alla fame del mondo, né
sovverte i [154] rapporti di potenza: non può quindi essere il Messia… Solo chi
libera l’uomo sotto l’aspetto politico-sociale, lo libera veramente. Tutto il
resto non conta nulla.
Contro questa concezione, il vangelo è chiaro: una
siffatta liberazione consegnerebbe l’uomo a Satana, lo renderebbe cioè
completamente suo schiavo. Ci sembra un giudizio molto duro. Ma, forse, proprio
l’esperienza della nostra generazione può farci nuovamente comprendere quest’affermazione.
Nel
grande romanzo di Solzenicyn, Il primo
cerchio, troviamo un singolare parallelismo con quest’asserzione biblica.
Il parallelismo risulta già dal fatto che tutta l’azione di questo libro si
svolge all’inferno e questo inferno è proprio là dove la politica totale ha
istituito il suo paradiso: questo paradiso è l’inferno, nel quale l’uomo
distrugge l’uomo. L’immagine diviene terribilmente plastica nella scena finale,
quando i prigionieri, per essere mimetizzati agli occhi della gente, vengono
sistemati su vagoni merci che portano la scritta: carne. Il corrispondente del
giornale francese Libération
[Liberazione] continua a vedere simili furgoncini e annota sul taccuino: «L’approvvigionamento
della capitale non può essere che eccellente».
Nel
libro vi è una scena in cui mi sembra che questo discorso abbia acquistato
un’evidenza estrema. L’Autore pone sulla bocca del vecchio idealista marxista
Rubin un’interpretazione provocante del Faust
di Goethe. Com’è noto, la tragedia di Goethe non si chiude tragicamente, ma in
un ottimismo fondato indubbiamente su di una singolare contraddizione. Faust
sarebbe stato perduto, se in un momento della sua vita avesse detto: «Fermati,
sei così bello!». In tutte le seduzioni, con cui Satana tenta di ammaliarlo,
questa parola non gli sfugge mai di bocca. Alla fine della sua vita, però, egli
organizza schiere di operai per strappare al mare nuova terra, e ora, al rumore
dei badili che sembrano infaticabilmente creare una nuova terra, pronuncia le parole:
[155]
«Ecco
della saggezza la fine ultima:
libertà
e vita si merita solo chi,
quotidianamente,
le deve conquistare.
E
così, circondati da pericolo, trascorrono
fanciullo,
adulto e vecchio il loro prezioso anno.
Vorrei
vedere un tale brulichio
dentro
un popolo libero su basi libere.
A
quell’istante potrei dire:
Fermati,
sei così bello»!
Faust ritorna così al suo
inizio: egli aveva tradotto il prologo di Giovanni «In principio era l’azione»,
sostituendo ‘parola’ con ‘azione’; aveva visto la salvezza del mondo non nel
senso che esso porta già in anticipo in sé e che è parola in tutti gli
individui, ma nell’azione con cui l’uomo crea a se stesso un senso.
Egli
muore nella speranza della redenzione che la sua azione gli procurerà. L’azione
politico-sociale, che crea un popolo libero su basi libere: ecco ciò che resta,
ecco la salvezza. Qui s’inserisce il pensiero di Rubin in Solzenicyn: «Se
riflettiamo un po’ attentamente, ci dovremmo forse domandare se Goethe non si
sia burlato del sentimento umano della felicità. In definitiva, infatti, esso
non giova a nulla… Faust pronuncia la frase liberante, da lungo tempo agognata,
a un passo dalla tomba, ingannato e forse anche già spiritualmente ottenebrato;
i lemuri lo spingono già nella fossa…». In effetti, se si riflette con
attenzione, tutto sembra una pura ironia. I badili, il cui rumore provoca Faust
alla sua esclamazione, sono servitori del demonio, il quale non vuole con essi
scavare un mondo nuovo, ma una tomba. Solo il cieco, chi è divenuto cieco, può
sentirvi la musica della salvezza, senza avvertire come invece tutto è una
presa in giro. Sulla
base del contesto del libro, mi pare di poter affermare che Solzenicyn offre
qui la sua interpretazione dello stalinismo (e, in pratica, del marxismo in
genere): fermati, sei così bello – si dice ora a un mondo del lavoro, a un
mondo edificato e da edificarsi di [156]
propria
iniziativa; ma quel mondo è, in verità, un mondo di lemuri, nel
quale viene scavata la fossa dell’uomo: una beffa del demonio nei confronti
dell’uomo, che cieco e ottenebrato, ormai vecchio cadente, non si accorge più
di esaltare l’inferno come sua liberazione.
Cerchiamo di
chiarire questa verità al di fuori della metafora: l’uomo ha bisogno di una politica, di una
pianificazione e azione sociale economica. Ma dove questa diviene totale, dove
la politica pretende di essere liberazione dell’uomo, essa tenta di sostituirsi
alla teologia e alla fede, e diventa perciò schiavitù totale dell’uomo. L’uomo
va in rovina, quando non possiede un senso più profondo dell’ordinamento
economico.
Forse,
nella storia dell’autoemancipazione dell’uomo negli ultimi 150 anni vi furono
realmente dei momenti in cui sorse irresistibile l’impressione che l’uomo
potrebbe non curarsi del problema di Dio, senza per questo subire danno alcuno;
potrebbe lasciarlo da parte, perché si tratta di una questione superflua. Forse
poté capitare addirittura di vedere nel problema di Dio un ostacolo per
liberarsi dallo sviluppo e per impegnarsi espressamente per le proprie cose. Ma
chi osserva la costellazione odierna della storia, dovrà per lo meno
ridiventare molto pensieroso a questo riguardo.
La situazione odierna è determinata dalla
contrapposizione di positivismo
(forma nuova del liberalismo) e di marxismo, visto
come profezia politica di salvezza: tra questi due si combatte la lotta per
l’uomo; filosoficamente ciò avviene, per esempio, come lotta tra il
neopositivismo di Popper e la scuola di Francoforte. Se il positivismo può
dimostrare a tutte le filosofie marxiste che esse sono teologie segrete, che
non possono essere verificate nei fatti, il marxismo può dimostrare al
positivismo che la sua oggettività è senza una regola e senza meta. Ma la vera soglia, in cui l’uomo si interroga su se
stesso, alla ricerca del suo perché e della sua strada, non è varcata né da una
parte né dall’altra. In ultima analisi, non si fa che parlare di potere e di
consumo. E così, proprio ciò che è specifico dell’uomo non è [157] toccato.
Ciò
che preoccupa in alcune forme del cristianesimo moderno sta appunto nel fatto
che anch’esse sembrano
diventate cieche per tutto ciò che non è potere o consumo, che
anch’esse riescono a comprendere la chiesa solo sotto l’aspetto del potere o
della soddisfazione consumistica.
In questo modo
non si può certo salvare il cristianesimo. La sua grandezza sta nell’esistere
per l’uomo. Gli offre
anzitutto una strada, gli presenta un’indicazione di come deve comportarsi e
vivere. Forse, solo dieci anni fa questo ci sembrava un puro moralismo, di cui
facevamo volentieri a meno.
Oggi,
sappiamo che l’uomo, il quale è privo di un’essenza (nel senso di Sartre) e
deve sempre scoprire se stesso, proprio a questo punto va in rovina fisicamente
e psichicamente e noi riusciamo ad apprezzare di nuovo il dono di una vita.
Certo, una via ha senso e può quindi esser
seguita solo se dà speranza in una meta, quando cioè conduce avanti. Ma per
l’uomo, in fin dei conti, è speranza solo l’amore. E, per chi crede, in Gesù
Cristo l’amore si è manifestato con certezza come fondamento del mondo. E a
Cristo conduce la strada cristiana. Sì, è egli stesso questa strada. Si potrebbe
così, forse un po’ troppo teoreticamente, definire la formula base del
cristianesimo in questo modo: l’amore creduto e divenuto visibile in Cristo è
la via su cui cammina la speranza dell’uomo.
Mi
sia permesso concludere con un’osservazione abbastanza pratica. Nelle
annotazioni della sua prigionia, Bonhoeffer ha osservato un giorno che oggi
anche il cristiano dovrebbe vivere quasi
Deus non daretur, come se Dio non esistesse. Egli non dovrebbe coinvolgere
Dio nelle faccende della sua vita quotidiana e dovrebbe plasmare la sua vita
terrena con personale responsabilità.
Io, invece,
vorrei dire proprio il contrario: oggi, anche colui per il quale l’esistenza di
Dio e il mondo della fede sono diventati oscuri, dovrebbe vivere praticamente quasi Deus esset, vivere come se Dio
realmente esistesse.
Vivere sotto la
realtà della verità, la
quale non è un nostro prodotto, ma è nostra si[158]gnora. Vivere sotto il modello della giustizia,
che noi non pensiamo da soli, ma è la potenza che misura noi stessi. Vivere nella
responsabilità nei confronti dell’amore, che ci attende e ci ama. Vivere sotto la
pretesa dell’eterno. Chi, infatti, vive attentamente lo sviluppo,
capirà che questa è l’unica maniera in cui l’uomo può essere salvato.
Dio –
lui solo – è la salvezza dell’uomo; questa incredibile verità, che per molto
tempo ci è sembrata qualcosa di teorico e di irraggiungibile, è divenuta la
formula più pratica di questa nostra ora storica. E chi, sia pure esitante forse all’inizio, si
rimette a questo arduo eppure inevitabile ‘come-se’ – vivere come se Dio
esistesse – si accorgerà sempre di più che questo ‘come-se’ è la vera realtà.
Con responsabilità propria si accorgerà della sua forza liberante. E saprà
profondamente e indistruttibilmente perché, anche oggi, sia necessario ancora
il cristianesimo, come vero e lieto messaggio che salva l’uomo. [159]
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