Accusare come Giobbe?
D.
Lo scrittore Joseph Roth si è davvero scontrato con il suo Dio, conformemente
all’antica tradizione ebraica. «Milioni di miei simili procrei nella tua
feconda insensatezza», ha scritto sotto l'impressione degli orrori della prima
guerra mondiale. «Non voglio la tua grazia», urla al cielo disperato, «mandami
all'inferno».
R.
Forse la rivolta è impressa con tanta
forza nella carne dell’Ebraismo anche perché non è ancora apparso il Cristo, il
Dio [34] che compatisce, che salva le anime e che si cala nella miseria della
condizione umana, che non si staglia più di fronte a noi come grande
impenetrabile mistero quale appare a Giobbe ma come colui che si è abbassato fino al gradino più infimo così da
poter dire di sé con il Salmo: «Ma io sono verme, non uomo», uno che è stato
schiacciato e calpestato.
Proprio in tempi in cui siamo preda del bisogno si
ripropone la domanda: Perché mi fai questo?! Dicevamo all’inizio che, quando diciamo apertamente a Dio la nostra incapacità di
comprenderlo, proprio allora, spesso, poniamo le basi per pregarlo in maniera
non formale e per elaborare e superare ciò che ci accade. Lo diciamo con la
certezza di ricevere la risposta giusta perché il Crocifisso, che ha subito
dolore e umiliazione quanto me, mi è sempre dinanzi.
D. Forse mi sbaglio, ma
mi pare che il rapporto con Dio nel Cristianesimo sia piuttosto improntato alla
devozione. Agostino dice: «Signore, io non mi scontro con te perché tu sei la
verità... Non ti chiedo conto... Ma nella tua misericordia, consentimi di
parlare, io che sono polvere e cenere».
R.
Agostino, che è sempre stato un uomo che molto ha sofferto e lottato, è stato
molto tormentato da questa domanda. All’inizio pensava che, dopo la
conversione, sarebbe iniziato un cammino in piano. Poi ha capito che anche un
sentiero in piano rimane tremendamente difficile, contrappuntato da valli
tenebrose. Era convinto che persino san Paolo aveva dovuto resistere fino all’ultimo
a delle tentazioni, convinzione che era probabilmente frutto della sua
esperienza, da lui proiettata su san Paolo. Ma proprio perché così grande era l’angoscia
che Agostino provava, era essenziale potersi rivolgere a Dio come al
Misericordioso da cui attendersi un rifugio sicuro, in cui fissare un volto fulgido
di bontà e non come a un soggetto con cui scontrarsi.
In
questo senso credo
che la figura di Cristo depuri il nostro scontro con Dio di un po’ della sua
asprezza. La risposta, che embrionalmente si dischiude a Giobbe all’apparire
del Creatore, è nel frattempo ulteriormente maturata. [35]
D. Insisto: molte
persone proprio in una situazione di bisogno cercano soccorso nella fede.
Talvolta funziona, ma talvolta si sente crescere dentro di sé, la domanda: mio
Dio, dove sei? Perché non mi aiuti quando ho bisogno di te?
R.
Il libro di Giobbe è il classico urlo dell’uomo che sperimenta la miseria dell’esistenza
e il silenzio di Dio. E persino un Dio apparentemente ingiusto. Giobbe è
disperato e adirato tanto da riversare poi davanti a Dio ciò che lo abbatte e
gli fa dubitare della bontà della vita.
Sono le
questioni se sia bene vivere, se Dio è davvero buono, se davvero esiste e se ci
aiuta veramente. Il tormento di notti assillate da questi interrogativi non ci
viene risparmiato. Evidentemente sono necessarie perché nel dolore si apprenda,
perché in esso si sviluppi una libertà interiore, una maturità e ancor prima la
capacità di condividere la sofferenza altrui.
Una
risposta definitiva e razionale, una formula con cui spiegare tutto ciò non
esiste. Perché, laddove il dolore
penetra sotto la pelle fino al cuore, allora sono tutt’altre le forze in gioco e
non si possono più spiegare con formule universali, ma in ultima analisi
possono solo essere messe in chiaro se le si attraversa soffrendo in prima
persona.
D. «Notti di dolore mi
sono state assegnate», lamenta Giobbe, «se mi corico, dico: “Quando mi alzerò?”.
Si allungano le ombre e sono stanco di rigirarmi fino all’alba... il mio occhio
non rivedrà più il bene». Che cosa si ricava dalla fede se questa non ti
risparmia nemmeno questo dolore spirituale ?
R.
Questo interrogativo è ammissibile perché, se
faccio qualcosa, questo deve avere un senso. Si vuole sapere se è davvero giusto,
se significa davvero qualcosa o se è un’illusione. Ma diventa erroneo se si considera tutto ciò
che esiste solo dal punto di vista dell’io, solo dall’angolatura dell’utile che
posso trarne. Allora ci si pone in una prospettiva di pulsione verso
la vita, di chiusura in se stessi che non ci consente più di comprendere e che,
in ultima analisi, costituisce la base del nostro fallimento esistenziale. [36]
Cristo disse una volta: Chi ama la propria vita, la perderà. E solo chi perde
la propria vita, chi è disposto a farne dono, si colloca nella prospettiva
giusta e può trovarla. Questo significa che, in
ultima analisi, devo rigettare la domanda su ciò che ne ricavo. Devo imparare a
riconoscere ciò che è importante, a lasciarmi andare. Devo essere disposto a
donare me stesso.
D. Facile a dirsi.
R.
Ma l’amore umano è davvero grande e arricchente se
comprende la disponibilità a rinunciare a se stessi per amore degli altri, a
uscire da sé, a fare dono di sé. E questo vale innanzitutto per il
nostro rapporto con Dio, da cui solo scaturiscono alla fin fine tutte le altre
relazioni.
Devo iniziare col non concentrare più l’attenzione
su me stesso ma a domandarmi cosa lui
vuole da me. Devo iniziare con l’imparare ad amare, a distogliere cioè lo
sguardo da me stesso per rivolgerlo a lui. Se in questa prospettiva cesso di
chiedermi cosa posso ottenere, ma mi lascio semplicemente guidare da lui, mi
perdo in Cristo, mi lascio andare, dimentico di me stesso, allora noto come la
mia vita si riaggiusti perché ho superato la ristrettezza egoistica che mi
spingeva a concentrarmi sulla mia persona. Quando, per così dire, esco in campo
aperto, solo allora incomincio ad avvertire la grandiosità dell’esistenza.
D. Questo significa che
probabilmente questa storia può durare anche a lungo.
R. Questo
naturalmente è un percorso che non può essere fatto dall’oggi al domani. Se si ha di mira un
rapido raggiungimento della felicità, questo obiettivo e difficilmente
compatibile con la fede. E questa è forse una delle ragioni che
minano oggi la fede, la frettolosità con cui vogliamo soddisfare il nostro bisogno
di felicità e passione e non abbiamo il coraggio di rischiare quell’avventura che dura
tutta una vita; alimentata dalla fiducia che il salto della fede non
sfoci nel nulla ma che, per sua essenza, costituisca quell’atto dell’amore per
cui sia[37]mo stati creati. E che solo mi dà ciò che io desidero: amare ed essere
amato e trovare in questo la vera felicità.
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