Nelle
considerazioni precedenti è già implicita la risposta all'interrogativo che ci
siamo posto all'inizio: io sono nella chiesa perché credo che, oggi come prima
ed indipendentemente da noi, dietro alla «nostra chiesa» vive la «sua chiesa». Io sono ancora nella chiesa
perché, nonostante tutto, credo che essa non è assolutamente nostra, ma 'sua'.
In termini molto
concreti: è la chiesa che, nonostante
tutte le debolezze umane in essa esistenti, ci dà Gesù Cristo; soltanto per
mezzo suo io posso ora riceverlo come una realtà viva e potente, che mi
arricchisce e insieme mi impone dei doveri.
Henri de Lubac ha
espresso così questa verità: «Coloro che accettano ancora Gesù pur rifiutando
la chiesa, non sanno che in ultima analisi è da questa che essi ricevono Cri
[90]sto?... Gesù è per noi una persona viva; eppure senza la continuità
visibile della sua chiesa, sotto quale cumulo di sabbia non sarebbero stati
sepolti non soltanto il suo nome e il suo ricordo, ma anche la sua influenza
vitale, l'efficacia del vangelo e della fede nella sua divina persona?...
'Senza la chiesa Cristo dovrebbe darsi alla fuga, disgregarsi, sparire'. E che
cosa sarebbe l'umanità se le si togliesse Cristo?»[nota 1]
A fondamento di
qualsiasi altra considerazione dobbiamo porre questa verità molto elementare: qualunque sia o qualunque sia stato il
grado di infedeltà della chiesa, per quanto sia vero che essa abbia
continuamente bisogno di misurarsi e confrontarsi con Cristo, fra Gesù e la
chiesa non c'è alcun contrasto decisivo.
È per mezzo della
chiesa che egli, superando le distanze della storia, ci parla oggi direttamente
e rimane in mezzo a noi come nostro maestro e Signore, come fratello che ci
rende fratelli. Donando a noi Cristo
Gesù, rendendolo vivo e presente in mezzo a noi, rigenerandolo
continuamente nella fede e nella preghiera degli uomini, la chiesa dà all'umanità una luce, un sostegno ed un conforto tali, che
senza di essi il [91] mondo non sarebbe
più concepibile. Chi desidera la presenza di Cristo in mezzo all'umanità, la
può trovare soltanto nella chiesa, mai contro di essa.
Da tutto ciò
segue logicamente l'altro motivo: io sono nella chiesa per le stesse ragioni per cui sono
cristiano. Non si può credere da soli. La fede è possibile soltanto in
comunione con altri credenti. Per sua stessa
natura essa è forza che unisce. Il suo vero modello è la realtà della
Pentecoste, il miracolo della comprensione che si instaura fra uomini di
provenienza e di storia diversa. Questa
fede o è ecclesiale o non è alcunché.
Inoltre come non si può credere da soli, ma
soltanto in comunione con altri, così non si può aver la fede per propria iniziativa o
invenzione, ma soltanto se c'è qualcuno che mi comunica questa capacità, la
quale non è in mio potere, ma mi precede e trascende. Una fede che fosse frutto
della mia invenzione sarebbe una contraddizione in termini, perché mi potrebbe
dire e garantire soltanto ciò che io già sono e so, ma non sarebbe mai in grado
di superare i limiti del mio io.
Perciò una
chiesa, una comunità che si facesse da sé, che fosse fondata soltanto sulla
propria grazia, sarebbe una contraddizione in termini. La fede esige una
comunità che abbia autorità, che sia superiore a me, e non una mia [92]
creazione, lo strumento e la realizzazione dei miei propri desideri.
Tutto ciò si può
formulare anche da un punto di vista più storico: o questo Gesù fu un essere
superiore all'uomo, dotato di un'autorità non frutto del proprio arbitrio, ma capace
di resistere e di tramandarsi attraverso i secoli, oppure egli non ebbe tale
autorità, né poté perciò lasciarla in eredità agli altri. In questo caso io
sarei in balia delle mie ricostruzioni mentali ed egli non sarebbe superiore a
nessun'altra grande figura di fondatore, di cui col pensiero si rinnova la
presenza nel proprio tempo. Se invece Gesù è qualcosa di più, egli non dipende
dalle mie rielaborazioni mentali, ma la sua autorità vale ancor oggi dopo tanti
secoli.
Ma ritorniamo al
pensiero precedente secondo cui si può
essere cristiani soltanto all'interno della chiesa, non fuori o accanto a essa.
Abbiamo il coraggio di porci con tutta obiettività la domanda piuttosto
patetica: che cosa sarebbe il mondo
senza Cristo? Senza un Dio che parli e si manifesti, che conosca l'uomo e
si lascia da lui conoscere? La risposta ci viene chiara e inequivocabile da
coloro che con esasperata tenacia cercano effettivamente di costruire un simile
mondo. I loro sforzi si riducono a un esperimento assurdo, senza prospettive,
né criteri d'azione.
Per [93] quanto nella sua lunga storia il cristianesimo abbia
concretamente mancato (e lo ha fatto in maniera
sempre sconcertante), il messaggio in
esso contenuto non ha mai cessato di far sentire i criteri della giustizia e
della carità, spesso contro la chiesa stessa e tuttavia ma senza la forza di
ciò che in essa è depositato.
In altri termini:
io rimango nella chiesa perché credo
che la fede, realizzabile soltanto in essa e comunque mai contro di essa, sia
una vera necessità per l'uomo e per il mondo. Questo vive della fede anche
là dove non la condivide. Infatti dove non c'è più
Dio – e un Dio che tace non è Dio – non c'è più neppure la verità che è prima
del mondo e dell'uomo. Ma in un mondo senza verità non si può vivere a lungo. Là dove si rinuncia alla
verità, si continua a vivere per il fatto che essa non si è ancora spenta
realmente, come se si spegnesse il sole, la sua luce giungerebbe ancora per
qualche tempo, nascondendo agli uomini la notte glaciale in realtà già
incominciata.
Lo stesso
pensiero può essere espresso in un'altra forma: io rimango nella chiesa perché soltanto la fede della
chiesa redime l'uomo. Può sembrare una frase molto tradizionale,
dogmatica e irreale, ma è invece del tutto obiettiva e realistica. Nel nostro mondo pieno di inibizioni e di
frustrazioni il desiderio di redenzione è riappar[94]so in tutta la sua
primordiale veemenza.
Gli sforzi di
Freud e di C. G. Jung non sono altro che tentativi di dare una redenzione a
gente che si sente irredente. Partendo da altre premesse, Marcuse, Adorno,
Habermas continuano, alla loro maniera, a cercare e ad annunciare la
redenzione. Quanto più l'uomo diventa
libero, illuminato e potente, tanto più il desiderio di redenzione lo tormenta,
tanto più si ritrova misero e schiavo.
Marx, Freud,
Marcuse hanno tutti in comune la ricerca della redenzione, l'aspirazione verso
un mondo senza dolori, malattie e miserie. Il grande ideale della nostra
generazione è una società libera dalla tirannia, dal dolore e dall'ingiustizia;
a questo mirano le turbolenti esplosioni dei giovani, mentre cresce il
risentimento dei vecchi nel vedere che la tirannia, l'ingiustizia e il dolore
continuano imperturbati.
La lotta contro il dolore e l'ingiustizia è senz'altro cristiana, ma
il pensare che attraverso le riforme sociali o l'eliminazione del potere e
dell'ordinamento giuridico si possa subito raggiungere un mondo libero dal
dolore, è una vera e propria eresia, una profonda ignoranza dell'uomo e della
sua natura.
In questo mondo
il dolore non deriva soltanto dalla disuguaglianza di ricchezza e di potere. La
sofferenza non è l'u- [95] nico fastidio che l'uomo dovrebbe scrollarsi di
dosso. Chi pensa così, deve rifugiarsi nel mondo illusorio degli stupefacenti,
per ritrovarsi poi ancor più distrutto ed in contrasto con la realtà.
Soltanto sopportando se stesso e liberandosi dalla tirannide del
proprio egoismo, l'uomo ritrova se stesso, la propria verità, propria gioia e
la propria felicità. La crisi del nostro tempo dipende principalmente dal
fatto che ci si vuol far credere che si può diventare uomini senza il dominio
di sé, senza la pazienza della rinuncia e la fatica del superamento, che non è
necessario il sacrificio di mantenere gli impegni presi, né lo sforzo per
soffrire con pazienza la tensione fra ciò che si dovrebbe essere e ciò che
effettivamente si è.
Un uomo che venga
privato di ogni fatica e trasportato nella terra promessa dei suoi sogni, perde
quanto ha di più caratteristico, smarrisce se stesso. In realtà l'uomo non viene redento se non attraverso la croce e
l'accettazione della sofferenza propria e del mondo in unione con la passione
di Cristo. Soltanto così egli diventa libero. Tutte le altre offerte più
comode e più facili sono destinate al fallimento. Le speranze del cristianesimo e le chance
della fede dipendono da una cosa molto semplice, dalla loro capacità di dire la
verità. Le prospettive e le possibilità della fede sono le stesse della
verità. [96] Questa può essere offuscata o calpestata, mai però annientata.
E veniamo
all'ultimo punto.
Un uomo vede soltanto nella misura in cui ama. Certo c'è anche la chiaroveggenza della negazione e dell'odio. Essi
però possono vedere soltanto ciò che è loro conforme: gli aspetti negativi. Ma
non sono in grado di costruire. Senza
una certa quantità di amore non si trova nulla.
Chi non si inoltra almeno per un po' e con sentimenti benevoli sulla
via della fede, chi non accetta di fare un'esperienza personale della chiesa e
non affronta il rischio di guardarla con gli occhi dell'amore, non scoprirà
altro che motivi di stizza e di rabbia. Il rischio dell'amore è condizione
preliminare per giungere alla fede.
Chi lo osa, non
ha bisogno di nascondersi nessuna delle debolezze della chiesa, perché scopre
che essa non si riduce soltanto a queste, perché si accorge che accanto alla
storia degli scandali c'è anche quella della fede forte e intrepida,
incarnatasi lungo tutti i secolo in figure meravigliose, come Agostino,
Francesco d'Assisi, il domenicano Las Casas infaticabile apostolo degli indios,
Vincenzo de' Paolo e Giovanni XXIII.
Chi affronta questo rischio dell'amore scopre che la chiesa ha
proiettato nella storia un fascio di luce tale da non poter essere dimenticato. Anche l'arte, sorta sotto impulso e ispirazione del suo messaggio
[97] e visibile ancor oggi in opere impareggiabili, diventa per lui una
testimonianza di verità: ciò che si
tradusse in espressioni così nobili non può essere soltanto tenebre.
La bellezza delle
grandi cattedrali, l'armonia della musica scaturita al calore della fede, la
solennità della liturgia ecclesiale, la stessa realtà della festa che non si
può fare, ma soltanto accettare[nota 2], l'organizzazione dell'anno
liturgico, nel quale si fondono insieme l'ieri e l'oggi, il tempo e l'eternità –
tutte queste cose che non sono, a mio avviso, casi fortuiti e insignificanti. Il bello è lo splendore del vero, ha
detto Tommaso d'Aquino, e potremmo
aggiungere che l'offesa del bello è l'autoironia del vero perduto. Le
espressioni, nelle quali la fede ha saputo tradursi lungo i secoli della sua
storia, sono testimonianza e conferma della sua verità.
Mi permetto di
aggiungere ancora un'osservazione,
anche se può sembrare che essa conduca molto nel soggettivo.
Se si tengono gli
occhi aperti, anche oggi si possono incontrare
delle persone, che sono una testimonianza vivente della forza liberatrice della
fede cristiana. E non è una vergogna
essere e rimanere cristiani anche a motivo di questi uomini che, dandoci l'esem[98]pio di un cristianesimo autentico, ce lo
rendono più degno di fede e di amore.
In fin dei conti rimane vittima di
un'illusione colui che vuol fare di sé una specie di soggetto trascendentale
che considera valido solo ciò che non è fortuito. Certo è un dovere riflettere su simili
esperienze, esaminare il loro grado di responsabilità, purificarle e dar loro
un nuovo contenuto. Ma nel corso di questo necessario processo di
obiettivizzazione non figura forse come una prova rilevante a favore del
cristianesimo il fatto che esso renda più umani gli uomini nel momento stesso
in cui li lega a Dio? L'elemento più soggettivo non è qui insieme anche un dato
del tutto oggettivo di cui non è proprio il caso di vergognarsi davanti a
nessuno?
Concludiamo con un'ultima osservazione.
Quando, come qui,
si afferma che senza l'amore non si può vedere e che perciò per conoscere la
chiesa è anche necessario amarla, molti arricciano il naso. L'amore non è forse
il contrario della critica? Non è forse questa la scusa, a cui quanto hanno in
mano il potere ricorrono volentieri per eliminare la critica e mantenere a loro
favore la situazione di fatto? Si giova di più agli uomini cercando di
tranquillizzarli e di mascherare le loro precarie situazioni, oppure
intervenendo a loro favore contro le abituali ingiustizie [99] o contro il
predominio delle strutture? Si tratta senz'altro di questioni molto importanti,
ma non possiamo ora prenderle tutte in considerazioni.
Una cosa è
comunque certa, che l’amore non è né statico né acritico.
L’unica possibilità che abbiamo di cambiare in senso
positivo un altro uomo è proprio quella di amarlo, trasformandolo lentamente da
ciò che è in ciò che può essere.
Non diversamente avviene per la Chiesa. Basta guardare alla storia più recente: durante il rinnovamento
liturgico e teologico della prima metà del secolo scorso è maturato un vero
movimento di riforma che ha portato a trasformazioni positive.
Ciò fu possibile
soltanto perché sorsero uomini che
amarono la Chiesa con cuore attento e vigilante, con spirito critico, capace di
cogliere i segni dei tempi, e che furono disposti a soffrire personalmente per
essa.
Se oggi non
riusciamo a realizzare qualcosa è perché siamo troppo preoccupati di difendere
e di affermare soltanto noi stessi. Non
varrebbe la spesa di restare in una chiesa che, per diventare accogliente e
degna di essere abitata, avesse bisogno di essere fatta da noi. Sarebbe una
contraddizione in termini.
Restare
nella chiesa perché essa è in se stessa degna di restare nel mondo, perché è in
se stessa degna di essere amata, ma di un amore capace di farla giungere a ciò
che de[100]ve essere veramente: questa è la via che anche oggi viene
chiaramente indicata dalla responsabilità della fede.
[nota 1] Henri
de Lubac, Geheimnis
aus dem wir leben, Einsiedeln 1967, 20s.; cfr. p. 18ss. [trad,
it., Paradosso e mistero della chiesa, Queriniana, Brescia 1968, 17s.,
11s.].
[nota 2]
Cfr. al riguardo specialmente J. Pieper,
Musse und Kult, München 1948.
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