L’unità della Bibbia come criterio di interpretazione
Perciò dobbiamo domandarci ancora una volta: la distinzione tra immagine e affermazione vera e propria
è solo una scappatoia, perché non riusciamo più a comprendere il testo e
tuttavia vogliamo [21] continuare a farlo, oppure la Bibbia stessa ci fornisce
dei criteri che ci indicano questa strada e avallano perciò tale distinzione? E ancora: essa stessa
ci mette a disposizione delle distinzioni di questo tipo? La fede della Chiesa
conosceva e aveva già operato queste distinzioni?
Dopo aver posto queste domande, riapriamo di
nuovo la Sacra Scrittura! Per prima cosa constatiamo che il
racconto della creazione appena letto non è un blocco erratico, definito e
compatto fin dall’inizio. Anzi, l’intera Scrittura non è stata
scritta semplicemente dal principio alla fine come un romanzo o come un
manuale: essa è piuttosto l’eco della storia di
Dio con il suo popolo; è il frutto delle lotte e degli itinerari di
questa storia; attraverso di essa possiamo riconoscere gli slanci, le
depressioni, le sofferenze, le speranze, la grandezza e poi di nuovo i
fallimenti di questa storia.
La Bibbia è quindi l’espressione della
lotta di Dio con l’uomo per farsi a poco a poco da lui capire, ma è anche
l’espressione della lotta dell’uomo per capire a poco a poco Dio. Per questo il tema della creazione non viene
proposto tutto in una volta, ma attraversa con Israele la storia, anzi tutta
l’antica al[22]leanza è un cammino
compiuto insieme con la parola di Dio.
Solo in questo cammino l’affermazione autentica
della Bibbia si è formata passo dopo passo. Perciò anche noi possiamo
riconoscere la sua vera direzione solo nella totalità di tale cammino. In
questo modo – in qualità di cammino – Antico e Nuovo Testamento sono tra loro
collegati. L’Antico Testamento appare nel suo
insieme al cristiano come marcia di avvicinamento a Cristo; solo quando perviene a Cristo, diventa chiaro quel
che intendeva propriamente dire, quel che passo dopo passo significava.
Così i singoli elementi ricevono il loro senso dal tutto, e il tutto riceve il
suo significato dal fine a cui tende, da Cristo.
Perciò noi interpretiamo teologicamente nella
maniera giusta il singolo testo – come i Padri e la fede della Chiesa ha sempre
insegnato in tutti i tempi – solo se lo comprendiamo come tratto di un cammino
progressivo, solo se riconosciamo in esso la tendenza, l’orientamento
intrinseco di questo cammino[nota 1].
Che significa ora quanto detto per
l’intelligenza del racconto della creazione? Facciamo una prima constatazione: Israele ha sempre creduto nel Dio [23] creatore, e questa fede la condivideva con
tutte le grandi culture del mondo antico. Infatti, pur tra gli offuscamenti del monoteismo, tutte le grandi culture hanno sempre
riconosciuto un Creatore del cielo e della terra, con sorprendenti elementi
comuni anche tra civiltà che non poterono mai incontrarsi esteriormente.
In questi elementi comuni possiamo senz’altro vedere qualcosa del contatto
profondissimo, mai completamente perduto, dell’umanità con la verità di Dio.
Nello
stesso Israele il tema della creazione è passato attraverso varie vicende. Esso non fu mai del
tutto assente, ma non fu neppure sempre importante allo stesso modo. Ci furono
periodi in cui Israele era così preso dalle sofferenze o dalle speranze della
sua storia, così direttamente legato al presente da non sentire il bisogno, da
non essere capace di spingere il suo sguardo fino alla creazione.
L’ora veramente grande, in cui il tema
della creazione divenne il tema dominante, fu l’esilio babilonese. Durante quel periodo
anche il racconto che abbiamo appena ascoltato trovò – ovviamente sulla base di
antichissime tradizioni – la sua formulazione attuale e autentica. Israele aveva perso il suo paese e il suo
[24] tempio. Per la mentalità di allora ciò era incomprensibile, poiché significava
che il Dio d’Israele era stato vinto, che era stato possibile sottrargli il suo
popolo, la sua terra e i suoi adoratori. Un Dio che non era capace di difendere
i propri adoratori e la propria adorazione dimostrava di essere un Dio debole,
anzi di non essere Dio. Perciò la deportazione dal proprio paese e l’eliminazione dalla
carta geografica rappresentavano una terribile tentazione per la fede
d’Israele: il nostro Dio è ormai vinto, la nostra fede vana?
Proprio in quest’ora i profeti aprirono una nuova pagina insegnando a Israele che solo ora
si stava manifestando il vero volto del loro Dio, che non era legato ad un
fazzoletto di terra. Anzi, non lo era mai stato: aveva promesso quel pezzo
di terra ad Abramo prima che egli vi risiedesse; poi aveva liberato il suo
popolo dall’Egitto: ambedue queste imprese aveva potuto compierle perché non
era il Dio di un paese, ma colui che disponeva del cielo e della terra. Per
questo poteva ora disperdere il suo popolo infedele in un altro paese, per dare
testimonianza di sé.
Ora si capiva finalmente che questo Dio non era
un Dio come gli altri dèi, ben[25]sì il Dio che disponeva di tutti i paesi e di
tutti i popoli. Tutto questo poteva farlo perché lui stesso aveva
creato tutto, il cielo e la terra. L’esilio, l’apparente
sconfitta di Israele, permettono di giungere alla conoscenza del Dio che ha in
mano tutti i popoli e tutta la storia, il Dio che sorregge tutto, perché è il
Creatore di tutto e ha il potere su tutto.
Questa
fede doveva ora trovare una sua fisionomia proprio di fronte alle tentazioni della
religione, apparentemente vincitrice, di Babilonia. Questa si esprimeva in
liturgie solenni, ad esempio nella liturgia della festa di capodanno, in cui
veniva celebrata e vissuta liturgicamente la creazione del mondo. Doveva trovare una sua fisionomia di fronte
all’Enuma elish, il grande racconto
babilonese della creazione, che descrive a modo suo l’origine del mondo.
Vi si dice che il mondo ebbe origine dalla lotta
fra potenze contrapposte e che prese la sua forma attuale quando entrò in scena
Marduk, il dio della luce, che aveva tagliato in due il corpo del drago
originario. Le due parti del corpo sarebbero diventate il cielo e la terra. Il
firmamento e la terra sarebbero quindi il corpo lacerato del drago ucciso,
mentre dal sangue Marduk [26] avrebbe creato gli uomini. Ci troviamo quindi di
fronte a un’immagine inquietante del mondo e dell’uomo: il mondo è propriamente
il corpo di un drago; nelle vene dell’uomo scorre sangue di drago. Al fondo del
mondo è in agguato una potenza inquietante e nel più profondo dell’uomo si
annidano la ribellione, il demoniaco e il male. Si tratta di una visione
secondo la quale solo il rappresentante di Marduk, il dittatore, il re di
Babilonia, può soggiogare il demoniaco e mettere ordine nel mondo[nota 2].
Tali idee
non erano semplici favole: esse riflettono le esperienze inquietanti dell’uomo
col mondo e con se stesso. Spesso abbiamo infatti davvero l’impressione che il mondo
sia una caverna di draghi e il sangue dell’uomo sangue di drago. Ma di fronte a
tutte queste esperienza opprimenti il racconto della Sacra Scrittura dice: non
è stato così.
Tutta la storia delle potenze inquietanti si
riduce a una mezza frase: «La terra era deserta e disadorna». I termini ebraici
corrispondenti echeggiano ancora le espressioni che avevano rappresentato il
drago, la potenza demoniaca. Ora esso è solo il nulla, di fronte a cui sta Dio,
l’unico potente. [27]
E alla nostra paura di fronte a queste
potenze demoniache viene detto: Dio soltanto, la ragione eterna che è l’amore
eterno, ha creato il mondo e lo tiene nelle sue mani. Solo
su questo sfondo comprendiamo la polemica che si cela dietro il testo biblico,
il suo significato drammatico, che consiste nell’eliminare tutti quei miti
confusi e nel ricondurre il mondo alla ragione e alla parola di Dio.
Lo potremmo dimostrare passo dopo passo col
nostro testo, ad esempio quando il sole e la luna vengono definiti come lampade
che Dio appende al cielo per misurare i tempi. Agli uomini di allora doveva
apparire un’enorme empietà dichiarare le grandi divinità del sole e della luna
due lampade per misurare il tempo. È questo l’ardimento, il realismo della fede, che in polemica
con i miti pagani fa brillare la luce della verità, mostra che il mondo non è
l’arena dei demoni bensì proviene dalla ragione, dalla ragione di Dio, e poggia
sulla parola di Dio.
In tal modo il racconto della
creazione si rivela come l’«illuminismo» decisivo della storia, l’esodo dalle
paure che avevano attanagliato l’uomo. Significa la consegna del mondo alla
ragione, il riconoscimento [28] della sua razionalità
e libertà.
Dimostra di essere il vero illuminismo, anche per il fatto che àncora la ragione umana
al fondamento originario della ragione creatrice di Dio, per mantenerla così
nella verità e nell’amore, senza le quali l’illuminismo diviene sregolato ed
alla fine stolto.
Un’altra cosa dobbiamo aggiungere.
Ho detto poco fa che questo popolo sperimenta
che cos’è la «creazione» lentamente, in polemica con l’ambiente pagano, in
polemica con il proprio cuore. Ciò implica che il racconto classico della creazione non è l’unico racconto di
creazione che troviamo nel libro sacro. Subito dopo ne troviamo un altro,
composto antecedentemente con altre immagini.
Nei Salmi ne troviamo altri ancora, e dopo di
essi il tentativo di chiarire la fede nella creazione continua: nell’incontro
con la grecità, la letteratura sapienziale riprende di nuovo questo tema, senza
ritenersi legata alle vecchie immagini come quella dei sette giorni etc.
Vediamo così come la stessa Bibbia
modifichi di continuo le immagini e le adatti alle successive mentalità; essa
le trasforma di continuo per testimoniare in maniera sempre nuova l’unica verità, che le è stata veramente
co[29]municata dalla parola di Dio, cioè
il messaggio che Dio è il creatore.
Nella stessa Bibbia le immagini sono libere, si
correggono continuamente e mediante questo lento e faticoso progresso ci fanno
capire che sono solo immagini, che
rivelano qualcosa di più profondo e grande.
[nota 1] Per questo e
per quel che segue, cfr. C. Westermann, Genesis,
vol. I, Neukircher-Vluyn 1974, pp. 1-103; per la lettura della Bibbia alla luce
dell’unità della storia in essa descritta, cfr. H. Gese, Zur biblischen Theologie. Alt-testamentliche Vorträge, München
1977, pp. 9-30 [34].
[nota 2] Il testo dell’Enuma elish lo si può trovare in C.
Schedl, Storia dell’Antico Testamento,
Roma 1959, vol. I, pp. 38-42. [35]
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