Il dubbio
D. Lei ha raccontato una
volta la storia di un Rabbi ebreo tramandataci da Martin Buber: secondo questo
racconto, il Rabbi riceve un giorno la visita di un illuminista. Costui e un
uomo dotto, che vuole dimostrare al Rabbi che non c’è una verità di fede, che
la fede e in realtà qualcosa di retrivo, un relitto del passato. Quando il
dotto varca la soglia della stanza del religioso, lo vede andare su e giù per
la stanza, con un libro in mano e assorto in meditazione. Il Rabbi non fa caso
all’il[29]luminista. Solo dopo un po’ si ferma, lo
guarda fugacemente e dice soltanto: «Forse però è vero». Tanto bastò. Al dotto
tremarono le ginocchia e lasciò precipitosamente la casa.
Una bella storia e
tuttavia sempre più spesso anche i sacerdoti volgono le spalle alla loro
Chiesa, i monaci abbandonano i conventi. Lei stesso ha parlato una volta della
«forza opprimente dell’incredulità».
R. La
natura della fede non è tale per cui a partire da un certo momento si possa
dire: io la possiedo, altri no. Ne abbiamo già parlato. È qualcosa di vivo che coinvolge l’intera persona
– ragione, volontà, sentimenti – in tutte le sue
dimensioni esistenziali. Può radicarsi sempre più in profondità nell’esistenza tanto
che vita e fede si identificano sempre più strettamente, ma ciò nonostante non è
semplicemente qualcosa che si possieda. L’uomo ha sempre la possibilità di
cedere a quest’altra tendenza che vive dentro di sé e di soccombere.
La fede rimane
un cammino. Durante tutto il corso della nostra vita siamo in cammino, e perciò
la fede è sempre minacciata e in pericolo. Ed è
anche salutare che si sottragga in questo modo al rischio di trasformarsi in
ideologia manipolabile. Di indurirsi e di renderci incapaci di condividere riflessione
e sofferenza con il fratello che dubita e che s’interroga. La fede
può maturare solo nella misura in cui sopporti e si faccia carico, in ogni fase
dell'esistenza, dell’angoscia e della forza dell’incredulità e l’attraversi
infine fino a farsi di nuovo percorribile in una nuova epoca.
D. Lei come vive tutto
ciò? Anche Lei ha sperimentato di persona questa «forza opprimente
dell’incredulità»?
R.
Naturalmente. Se da professore o insegnante della fede si tenta di credere
nella situazione spirituale di questo nostro secolo, bisogna lasciarsi interrogare dalle questioni che mettono in
discussione la fede. E allora ci misuriamo naturalmente anche con quei modelli
esistenziali che si ripromettono di sostituire la fede o di renderla superflua.
Da questo punto di vista accogliere, accettare di essere
attraversati dall’angoscia di ciò [30] che oggi
parla contro la fede e perseverare interiormente nella fede è una componente
essenziale del mio compito.
Ma,
se anche non volessi, sarei comunque incalzato dalle informazioni, dagli
eventi, da ciò che ci si dischiude nell’esperienza di vita. Tutto ciò, da un lato, rende faticoso il cammino della
fede. Ma poi, quando si scorge la luce, ci si accorge che si sta scalando una
montagna e che proprio in questo modo si giunge ancora più vicino al Signore.
D. C’è mai una conclusione
definitiva?
R.
Un approdo del tutto definitivo non c'è
mai.
D. È pensabile che anche
un Papa possa essere assalito dal dubbio e dall’incredulità?
R.
Non dall’incredulità, ma che possa
soffrire sotto il peso delle questioni che ostacolano la fede, questo lo si può
ben immaginare. Mi è rimasto impresso nella memoria un incontro che mi è
capitato quando ero cappellano a Monaco. Il mio parroco di allora, Blumscheid,
era amico del pastore della vicina comunità evangelica. Un giorno giunse Romano
Guardini a tenere una conferenza e i due parroci poterono avvicinarglisi e
parlargli. Non so cosa si dissero, ma poi Blumscheid mi ha raccontato
costernato come, secondo Romano Guardini, con l’avanzare dell’età, rapportarsi
alla fede diventi non più facile ma più difficile. Guardini doveva avere allora
tra i 65 e i 70 anni. Naturalmente questa è l’esperienza specifica di un uomo
tendenzialmente malinconico e che aveva molto sofferto. Ma, come ho detto, non c’è una
risposta conclusiva a tale questione. D’altro lato, la faccenda si semplifica
nella misura in cui anche la fiammella della vita si fa più debole. Ma finché si è in cammino, si è in
cammino sul serio.
D. La Chiesa cattolica sa con assoluta sicurezza
com'è Dio veramente, cosa dice veramente e anche cosa vuole davvero da noi?
R.
La Chiesa cattolica sa, tramite la fede, cosa Dio ci ha
detto nel [31] corso della storia
della Rivelazione. Naturalmente la comprensione che gli uomini ne hanno – anche
quella che la Chiesa ne ha – è inadeguata rispetto a ciò che Dio ha
effettivamente detto. Perciò la fede si evolve. Ogni generazione
riscopre nuove dimensioni, suggerite dal contesto esistenziale in cui si trova
a vivere e fino a quel momento rimaste ignote anche alla Chiesa.
Il
Signore stesso lo predice nel Vangelo di Giovanni: «Il Signore stesso vi condurrà
nella verità perché possiate conoscere anche ciò di cui oggi non siete capaci
di portare il peso». Questo significa che c’è
sempre un’eccedenza della Rivelazione, un qualcosa di «ulteriore» non solo
rispetto alla comprensione che ne ha il singolo, ma anche rispetto alla
conoscenza che ne ha la Chiesa. Quest’eccedenza è perciò per ogni generazione
una nuova avventura.
D. Che cosa significa?
R.
Non potremo mai dire di sapere tutto, non potremo mai dire che il Cristianesimo
ha esaurito la parabola del sapere. Poiché Dio e l’esistenza umana sono
imperscrutabili, ci sono sempre nuove dimensioni da sondare. Ciò che è comunque dato alla Chiesa è la
certezza di ciò che non è compatibile con il Vangelo. Nei suoi dogmi e nella
sua confessione di fede ha formulato le cognizioni essenziali. Sono tutte formulate
in negativo. Dicono
dov’è il limite oltre al quale ci si perde. Lo spazio all’interno di questi
confini rimane, per così dire, vasto e aperto. E perciò la Chiesa può indicare
le direttrici fondamentali dell’esistenza umana e dire in che direzione non
devo sicuramente andare se non voglio precipitare nell’abisso. Rimane compito del singolo scoprire ed esplorare le
molteplici possibilità in cui si imbatte nel corso del suo cammino.
D. Molti pensano comunque che il Cristianesimo non sia tanto una religione
pratica quanto piuttosto qualcosa valevole per l’aldilà, un percorso lungo
il quale si racimolano dei punti che possono essere fatti valere in un conto
aperto nell’altro mondo.
È giusto che l’aldilà faccia parte
della prospettiva di vita [32] cristiana. Se lo si
dovesse togliere, allora la nostra prospettiva diventerebbe un frammento
bizzarro, qualcosa di monco. La vita umana sarebbe grossolanamente
amputata se la si vedesse soltanto nella dimensione di questi 70-80 anni che ci
sono dati mediamente da vivere. In questo modo sorge questa curiosa sete di
vita. Se la vita temporale è l’unica ricchezza di cui posso disporre, allora
devo fare in modo di trarre e di arraffare da essa quanto più possibile. Allora
non posso più permettermi di avere riguardo per alcuno.
L’aldilà mi dà la misura e conferisce alla mia
vita terrena la serietà e il peso che mi consentono di non vivere solo per
l’istante ma di far sì che questa vita alla fine valga e sia feconda – non solo
per me ma per la collettività intera. Il Dio che ci esaudisce non ci libera
dalla responsabilità, ma ci insegna ad assumerla. Ci induce a vivere
responsabilmente ciò che ci è stato affidato come missione in modo da non dover
un giorno abbassare lo sguardo dinanzi a lui.
D. Cristo dice:
«Chiedete e vi sarà dato. Cercate e troverete. Bussate e vi sarà aperto».
D’altro canto, quando mio figlio si trova ad esempio a dover svolgere un
compito scolastico, si rivolge a Dio per avere aiuto, ma, detto onestamente,
non sempre lo ottiene.
R.
Si invoca per esempio la salute; una madre lo fa per il suo bambino, un uomo
per sua moglie; si chiede che un popolo non precipiti nell’errore e sappiamo
che le preghiere non sempre sono esaudite. Questo può risolversi in un grosso
interrogativo per un uomo in bilico tra la vita e la morte. Perché non riceve
risposte, o almeno non quella risposta che lui ha invocato? Perché Dio tace?,
si chiederà. Perché si ritrae? Perché avviene esattamente il contrario di ciò
che volevo?
Questa distanza tra la promessa di Gesù e ciò che
sperimentiamo nella nostra esistenza ha spinto a riflettere tutte le
generazioni, ogni individuo e anche me. Ognuno deve conquistarsi da sé una
risposta imparando finalmente a comprendere perché Dio ha interloquito con lui
proprio a quel modo.
[33]
D. E qual è la risposta?
R.
Agostino e altri grandi dicono che Dio ci dà quel che è
meglio per noi anche se non lo sappiamo in anticipo. Spesso identifichiamo
questo «meglio» con il contrario di quello che fa Dio. Dovremmo imparare ad
accettare anche questo percorso, che l’esperienza e il dolore ci rendono così
ostico, e a vedervi in questo l’agire della Provvidenza. Il cammino di Dio è spesso un immane percorso di rimodellamento e riplasmazione
della nostra esistenza da cui usciamo davvero trasformati e pronti a
incamminarci nella giusta direzione.
Da
questo punto di vista dobbiamo dire che questo «Chiedete e vi
sarà dato» non significa sicuramente che io, per tutto ciò che desidero, possa
ricorrere a Dio come a un tappabuchi che mi renda la vita comoda. O che mi
liberi dal dolore e dagli interrogativi. Al contrario, significa che Dio mi
ascolta in ogni caso e mi concede, in un modo solo a lui conosciuto, ciò che mi
è davvero utile.
Per
tornare al caso concreto: per suo figlio può anche essere salutare imparare che
il buon Dio non è lì per fare capolino ogni qualvolta lui non studia i vocaboli
come dovrebbe, ma che è lui a doversi impegnare. Questo può talvolta
significare che è giusto che non gli venga risparmiato l'ammonimento implicito
nell’insuccesso. Perché forse proprio di questo ha bisogno per trovare la
strada lungo la quale deve incamminarsi.
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