Sfruttamento della terra?
Così siamo giunti a un’ultima considerazione. Una proposizione del racconto della
creazione ha ancora bisogno di essere spiegata in maniera
par[52]ticolareggiata. Penso al celebre versetto 28 del primo capitolo della Genesi, all’ordine
impartito da Dio agli uomini: «Soggiogate la terra!». Da un po’ di tempo questa frase è diventata
il punto di partenza degli attacchi al cristianesimo. A causa delle
terribili conseguenze di questo imperativo, il cristianesimo si sconfesserebbe
sa solo, sarebbe il responsabile di tutta la miseria dei nostri giorni.
Il Club di
Roma,
che una decina d’anni fa scosse dalle fondamenta la fede nel progresso del
periodo postbellico denunciando con accenti apocalittici i limiti della
crescita, ha
sviluppato la sua critica della civiltà, divenuta nel frattempo una corrente
culturale, anche come critica del cristianesimo, che sarebbe la radice di
questa civiltà dello sfruttamento. Il compito assegnato agli uomini
di sottomettere la terra avrebbe avviato quel cammino funesto di cui oggi
cominciamo a vedere l’amara conclusione. Nella scia di queste idee uno scrittore di Monaco di Baviera
parlò di «conseguenza funeste del cristianesimo», un’espressione che da allora
viene volentieri ripetuta. Quel che abbiamo appena esaltato: il
mondo divinizzato e razionalizzato con la fede nella creazione; il sole, la
luna e le [53] stelle non più divinità grandi e inquietanti, ma semplici
lampade; gli animali e le piante private del loro carattere mitico, tutto
questo diviene ora capo d’accusa del cristianesimo.
Proprio il
cristianesimo avrebbe degradato le grandi potenze fraterne del mondo al rango
di semplici oggetti d’uso e avrebbe così indotto ad abusare delle piante, degli
animali, delle energie del mondo in genere, alimentando una ideologia della
crescita, che pensa e si interessa solo a sé stessa.
Che dire al riguardo?
Il compito affidato dal Creatore all’uomo dice che
questi deve prendersi cura del mondo come creazione di Dio, seguendone il ritmo
e la logica.
Il senso di tale compito è precisato nel capitolo successivo della Genesi con
la parole «lavorare e custodire» (Gn 2, 15).
Tende dunque a introdurre nel linguaggio stesso
della creazione, significa che la
creazione è portata ad essere ciò di cui è capace e a cui è chiamata, ma non
che essa è stravolta contro sé stessa. La fede biblica comporta soprattutto che l’uomo non si
chiuda in sé stesso, che sia consapevole di trovarsi inserito nel grande corpo
della storia, che deve alla fine diventare il corpo di Cristo. Il passato,
il presente e il [54] futuro devono incontrarsi e compenetrarsi in ogni vita
umana. Soltanto il nostro tempo doveva cadere in quel tormento di narcisismo che taglia in uguale misura i ponti con il
passato e con il futuro e vuole soltanto il presente.
Ora, però, dobbiamo domandarci: come si è giunti a questa esasperata mentalità
attivistica e assetata di dominio, che oggi ci minaccia tutti?
Un primo
bagliore della nuova mentalità si manifesta nel corso del Rinascimento, ad
esempio in Galileo,
quando afferma: qualora la natura non risponda spontaneamente alle nostre
domande e non disveli i proprio segreti, la metteremo alla tortura e con un
doloroso interrogatorio le strapperemo le risposte che non vuol darci di sua
spontanea volontà.
La costruzione degli strumenti delle scienze
naturali è per lui come la preparazione di strumenti di tortura, con cui l’uomo,
in qualità di signore assoluto, si procura le risposte che vuole avere da
questa accusata.
La nuova
mentalità ha naturalmente assunto forme concrete e storicamente efficaci solo più tardi e, in misura piena, con Karl Marx. Fu lui a dire all’uomo di non occuparsi più della
sua origine e della propria derivazione, [55] in quanto si tratterebbe di una questione
insulsa.
Con questo Marx intende eliminare
la questione razionale dell’origine e del progetto del mondo di cui abbiamo parlato all’inizio, perché la creazione con la sua intrinseca razionalità è
il messaggio più forte e invincibile del Creatore, da cui non possiamo mai
emanciparci.
Poiché la questione della creazione non può
essere ultimamente risolta se non rifacendosi allo Spirito creatore, la
questione stessa viene dichiarata assurda. Ciò che conta non è la creazione creata;
solo l’uomo deve produrre la vera creazione, quella che poi servirà a qualcosa.
La trasformazione è perciò il compito fondamentale
dell’uomo, il progresso è la verità autentica, mentre la materia è il
materiale con cui l’uomo crea quel mondo in cui varrà la pena di vivere[nota 1].
È stato Ernst Bloch
a portare quest’idea a una forma inquietante.
Secondo lui
la verità non è quel che conosciamo; la verità sta solo nel cambiamento. Di conseguenza la verità è ciò che si impone e la realtà è
coerentemente una «guida all’intervento e un addestramento all’attacco»[nota 2]. Essa ha bisogno di un «polo
concreto di odio»[nota 3],
affinché troviamo lo slancio necessario per cambia[56]re. Così per Bloch il bello non
è lo splendore della verità delle cose, bensì il preludio del futuro verso cui
andiamo e che noi stessi fabbrichiamo.
Perciò, così egli conclude, la cattedrale del futuro sarà il
laboratorio, le chiese di San Marco della nuova era saranno le centrali
elettriche. Allora non avremo
più bisogno di distinguere fra domenica e giorni feriali, non avremo più
bisogno di sabati, perché l’uomo sarò in tutto il creatore di sé; allora
smetterà anche di affaticarsi solo per dominare o plasmare la natura;
rappresenterà la natura stessa come cambiamento[nota 4].
Qui troviamo formulato con chiarezza
difficilmente reperibile altrove il tormento del nostro tempo. Prima l’uomo poteva trasformare solo
determinate cose della natura. La natura in quanto tale non era
oggetto, bensì presupposto della sua azione. Ora la natura stessa nel suo complesso è nelle
sue mani, ma in questo modo egli si vede esposto improvvisamente al
pericolo più grave per la sua esistenza.
Il
punto di partenza sta in quell’atteggiamento che vede la creazione solo come un
prodotto del caso e della necessità. La creazione non ha di per sé alcun diritto e
non può for[57]nire alcuna indicazione. È messo a tacere il ritmo intrinseco, di cui parla il racconto della
Sacra Scrittura, il ritmo dell’adorazione, che è il ritmo della storia di amore
di Dio con l’uomo.
Oggi evidentemente tocchiamo con mano i
risultati spaventosi di un simile atteggiamento. Percepiamo una minaccia che
non è un futuro lontano, ma ci riguarda direttamente e personalmente.
L’umiltà della fede è scomparsa; l’orgoglio del
fare ha fatto fallimento; così va prendendo piede un nuovo atteggiamento non
meno deleterio, un atteggiamento che vede l’uomo come un guastafeste che rompe
tutto e che è il vero parassita e la vera malattia della natura. L’uomo non ha
più simpatia per se stesso, preferirebbe ritirarsi, affinché la natura ritorni
sana.
Ma neppure così ripristiniamo il mondo, perché contraddiciamo
il Creatore anche quando non vogliamo più essere gli uomini che egli ha voluto.
In questo modo non guariamo la natura, bensì distruggiamo noi e con noi il
creato. Lo priviamo della speranza, che è in esso insita, e della grandezza a
cui è chiamato.
Pertanto la via cristiana
rimane l’unica che veramente salva. In essa è presente la convinzione che
[58] possiamo essere realmente «creativi» solo in unità
con il Creatore del mondo. Possiamo servire veramente la terra solo se ci
poniamo di fronte a essa secondo le indicazioni della parola di Dio.
Allora possiamo realmente far progredire noi stessi e il mondo.
«Operi Dei nihil praeponatur»: non bisogna preferire nulla all’opera di Dio, non bisogna anteporre
nulla al culto di Dio. Questa frase è la vera
legge della conservazione della creazione contro la falsa adorazione del
progresso, contro l’adorazione del cambiamento che calpesta il mondo e il
creato allo stesso tempo, impedendo loro di raggiungere il proprio fine.
Soltanto se il Creatore è il vero
redentore dell’uomo, solo se abbiamo fiducia nel Creatore camminiamo verso la
redenzione del mondo, dell’uomo e delle cose.
Amen.
[59]
[1] Cfr. Joseph
Ratzinger, Conseguenze della fede
nella creazione. Lectio Magistralis tenuta il 14 marzo 1979 in occasione
della festività di San Tommaso d’Aquino presso la Facoltà di teologia cattolica
dell’Università di Salisburgo, in Idem,
In principio Dio creò il cielo e la
terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino 2006, pp.
107-136. [60]
[2] Desumo le citazioni seguenti dall’illuminante
libro di F. Hartl, Der Begriff des
Schöpferischen. Deutungsversuche der Dialektik durch Ernst Bloch und Franz von
Baader, Frankfurt 1979; cfr. Prinzip
Hoffnung, Frankfurt 1959, vol. V, pp. 74-80, 319. [60]
[3] «Senza scissione nell’amore, mediante un
polo di odio altrettanto concreto, non si dà amore autentico; senza la
parzialità del punto di vista rivoluzionario classista si dà solo un idealismo
rivolto al passato anziché una prassi rivolta al futuro» (E. Bloch, Prinzip Hoffnung cit., p. 318; F. Hartl,
Der Begriff cit., p. 80). [60]
[4] «Markuskirche und Elektrizitätswerke»: Prinzip Hoffnung cit., p. 928 ss.; «Verzicht
auf abgetrennte Sonn-und Feiertage», ivi,
p. 1071 ss.; cfr. Hartl, Der Begriff
cit., pp. 109-146, specialmente le pp. 130 e 142. Altro materiale interessante
dall’area del pensiero marxista in J. Pieper, Zustimmung zur Welt. Eine Theorie des Festes, München 19642,
p. 133 ss. [60]
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