Prologo - Fede, Speranza, Carità [11]
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R. Non parlerei di paura. Grazie a Cristo sappiamo
com’è Dio, sappiamo che ci ama. E lui sa come siamo fatti noi. Sa che
siamo carne, che siamo polvere. Perciò ci accetta con la nostra debolezza. Comunque avverto sempre il senso bruciante della
mia inadeguatezza alla vocazione, dell’inadeguatezza all’idea che Dio ha di me,
di quello che potrei e dovrei dare.
D. Non avverte in questi frangenti che
Dio la critica o non approva qualcuna delle sue decisioni?
R. Dio non è un gendarme o un giudice sempre pronto
a infliggere punizioni. Ma ogni giorno devo proiettare le mie azioni nello
specchio della fede, anche alla
luce dell’incarico che ho assunto, per riflettere su quello che se giusto e
distinguere ciò che è distorto. Allora avverto naturalmente anche ciò che c'è di sbagliato. Per questo
esiste il sacramento della Penitenza.
D. Si dice dei cattolici che sono pieni
di sensi di colpa verso Dio.
R. Credo che i
cattolici siano animati innanzitutto da una forte consapevolezza del perdono di
Dio. Prendiamo l’arte
barocca [13] o il rococò. Vi si avverte una grande serenità. A nazioni
tipicamente cattoliche come l’Italia e la Spagna si attribuisce non senza
ragione una leggerezza interiore.
Forse in
alcuni contesti il cristianesimo è stato piegato a forme educative e torsioni
in cui hanno preso il sopravvento elementi di durezza, di severità, di terrore,
ma queste tendenze sono estranee al Cattolicesimo. Ho l’impressione che proprio in
uomini che vivono della fede della Chiesa prevalga alla fine la consapevolezza
della redenzione: Dio non ci fa cadere!
D. C’è una lingua di cui Dio si serve
per dirci talvolta molto concretamente: «Sì, fallo» oppure: «Fermati, questo è
l'ultimo avvertimento. Lascia perdere»?
R. La lingua di Dio è sommessa. Ma i segnali che ci
lancia sono multiformi. Guardando a ritroso possiamo renderci conto che
Dio si è servito di nostri amici, di un libro o anche di un apparente
fallimento, e persino di incidenti per darci uno scossone. La vita è piena di
queste tacite indicazioni. Lentamente,
se rimango vigile, si ricompone il mosaico e inizio ad avvertire il modo in cui
Dio mi guida.
D. Per Lei che parla personalmente con
Dio, la comunicazione con lui è diventata così naturale come telefonare?
R. Sotto certi aspetti il paragone può
reggere. So che lui è sempre presente. E lui sa comunque chi
sono e che cosa sono. A maggior ragione avverto l’esigenza di invocarlo, di
comunicare con lui, di parlare con lui. Con lui posso misurarmi sulle questioni più semplici e interiori come
su quelle più grandi e gravose. Per me è
in qualche modo normale avere sempre la possibilità, nel quotidiano, di
rivolgermi a lui.
D. In questi momenti di dialogo Dio si comporta sempre con rispetto o
dimostra anche di possedere senso dell’umorismo?
R. Credo che
disponga di un notevole senso dell’umorismo. Talvolta dà persino una gomitata e
raccomanda di non pren[14]dersi troppo sul
serio! L’umorismo è una componente della serenità della creazione. In molti
momenti della nostra vita possiamo notare come Dio ci inciti a prendere la vita
con maggiore leggerezza, a vedervi anche i lati allegri, a scendere dal
piedistallo e a non trascurare il senso del comico.
D. Le è mai capitato di prendersela con
Dio?
R. Naturalmente
mi capita talvolta di pensare: Perché non mi sostiene maggiormente? Talvolta mi
pare indecifrabile. Nelle situazioni che provocano la mia collera avverto in
qualche modo anche il suo mistero, la sua estraneità. Ma prendersela direttamente con Dio significherebbe sminuirlo. Anzitutto
vi sono dei fattori superficiali che possono provocare la collera. E laddove la
collera sia effettivamente giustificata, ci si deve sempre chiedere se, anche
attraverso le cose e le persone che suscitano la nostra collera, non ci venga
comunicato qualcosa di importante. Ma con Dio non me la prendo mai.
D. Come inizia la Sua giornata?
R. Per prima
cosa, prima di alzarmi, recito una breve preghiera. Il giorno assume tutt’altro
aspetto se non ci si immerge direttamente nel flusso delle cose. Seguono poi tutte le cose cui ci si dedica nei
primi momenti della giornata: lavarsi, fare colazione. Quindi vengono la Santa
Messa e il breviario. Per me questi rappresentano gli atti fondamentali della
giornata. La Messa è l’incontro reale
con la presenza del Cristo risorto, mentre recitare il breviario significa
penetrare nella grande preghiera dell’intera storia della salvezza, di cui i
Salmi rappresentano il cuore. Allora si prega all’unisono con i millenni e
ci raggiunge la voce dei Padri. Tutto questo ci apre la porta oltre la quale ci
si immette nel pieno della giornata. A quel punto inizia il lavoro normale.
D. E con che frequenza prega?
R. Momenti
fissi dedicati alla preghiera sono il mezzogiorno, in cui, secondo la
tradizione cattolica, ci si rivolge all’angelo [15] del Signore, i Vespri al
pomeriggio e alla sera la completa, la preghiera serale della Chiesa. E nel frattempo, se avverto di aver bisogno
di aiuto, posso pur sempre inframmezzare delle brevi preghiere.
D. La preghiera che recita prima di
alzarsi può variare?
R. No, è una
preghiera fissa, a dire il vero si tratta di una raccolta di diverse brevi
preghiere, ma nel complesso rappresenta una formula fissa.
D. Può darci un consiglio in proposito?
R. Ognuno può
scegliersi qualcosa entro il tesoro della Chiesa.
D. E di notte, quando non si
riesce a trovare requie...
R. …consiglierei di recitare il Rosario. È una
preghiera che, al di là del suo significato spirituale, possiede una forza
rasserenante dal punto di vista psicologico. Se ci si concentra sulle parole
della preghiera, ci si libera gradualmente dai pensieri tormentosi.
D. Come
affronta personalmente i problemi, ammesso che ne abbia?
R. Come
potrei non averne? Da un lato tento di riversare
i problemi nella preghiera e di rinsaldarmi interiormente. Dall’altro tento
di applicarmi a qualcosa che mi richiede
impegno, di dedicarmi fino in fondo a un compito che mi stimoli ma che, contemporaneamente,
mi dia anche gioia. E infine l'incontro con gli amici mi risolleva
un po’ da ciò che mi angustia. Queste tre componenti sono importanti.
D. Credo che ognuno si senta di tanto in
tanto stanco, distrutto, svuotato di energie, disperato e irato anche per la
propria sorte apparentemente ingiusta. Riversare
i problemi nella preghiera, come ha detto Lei: come fare?
R. Forse si inizia come Giobbe. Bisogna iniziare col gridare a Dio anche
interiormente i propri rimproveri, col dirgli senza [16] mezzi termini: Che vuoi fare di me?! La voce di
Giobbe rimane una voce autentica che ci dice anche che possiamo, e forse
persino dobbiamo osare. Per
quanto Giobbe non si sia inchinato davanti a Dio e l’abbia accusato, Dio alla
fine gli dà ragione. Dio lo approva e accusa gli altri, quelli che avevano una
spiegazione per tutto, di non aver parlato rettamente di lui. Giobbe entra in
conflitto e gli espone le sue accuse. Gradualmente, poi, inizia a prestare
ascolto alle parole di Dio, si verifica una svolta e le cose appaiono in un’altra
prospettiva. Si esce in questo modo dalla mera condizione di
chi subisce torti e si capisce di non poter certo comprendere in questo momento
l’amore che lui rappresenta, ma di poter contare sulla bontà di ciò che si
verifica.
D. Forse i problemi andrebbero
semplicemente affrontati con maggiore rigore, non solo accettati.
R. Problemi non possono non essercene. Certe
decisioni, insuccessi, rapporti umani sbagliati, delusioni toccano le persone e
non possono non toccarle. I problemi servono anche ad educarci a
rielaborare certe cose. Se diventassimo d’acciaio, impermeabili, ne perderemmo
anche in umanità e sensibilità nei confronti degli altri. Lo stoico Seneca ha detto che la pietà è qualcosa
di ripugnante. Al contrario, noi vediamo in Cristo colui che com-patisce, le
questo ce lo rende prezioso. Del cristiano sono propri anche la pietà, anche
la vulnerabilità. Si deve allora imparare ad accettare le ferite, a convivere
con le ferite e a trovare infine un modo più profondo per farle rimarginare.
D. Molti sapevano pregare da bambini,
poi hanno perso questa capacità. Quella di parlare con Dio è una capacità che
va imparata?
R. Il senso
di Dio può atrofizzarsi a tal punto che le parole della fede perdono totalmente
di significato. E chi non ha più ca[17]pacità
di ascolto, non è nemmeno in grado di parlare, perché sordità e mutismo vanno
di pari passo.
È come se si
dovesse apprendere la propria lingua madre. Lentamente si impara a decifrare i
segni di Dio, a parlare questa lingua e a comprendere Dio, per quanto in
maniera inadeguata. Gradualmente, poi, si imparerà a pregare personalmente e a
parlare con Dio, dapprima in maniera molto infantile – in un certo senso
rimaniamo sempre bambini- ma poi sempre di più con le proprie parole.
D. Lei ha detto una volta: Se l’uomo si
fida solo di ciò che vede con i propri occhi, allora in verità è cieco…
R. …perché
allora limita il proprio orizzonte al punto che gli sfugge l’essenziale. Non
vede nemmeno il proprio raziocinio. Proprio le
cose effettivamente portanti non possono essere viste soltanto con gli organi
sensoriali, e da questo punto di vista non vede ancora adeguatamente se non è in grado
di guardare oltre ciò che è immediatamente percepibile.
D. Qualcuno mi ha detto che avere fede è
come fare un balzo da un acquario nel bel mezzo dell’oceano. Ricorda la Sua
prima grande esperienza di fede?
R. Direi che ho piuttosto vissuto una crescita
silenziosa. Naturalmente ci sono
degli apici, in cui nella liturgia, nella teologia, nel primo abbozzarsi di
una visione teologica, ti si aprono degli squarci, in cui improvvisamente ti si spalancano degli orizzonti entro cui
scorgi elementi portanti che non hai semplicemente rilevato da altra fonte.
Quel grande balzo di cui Lei ha parlato, quell’evento speciale, non riuscirei a
identificarlo nella mia vita. E piuttosto come quando, dalle acque basse della
riva, ci si spinge, lentamente e con prudenza, sempre più oltre fino ad
iniziare ad avvertire i segni dell’oceano che ci viene incontro.
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