1. Siamo salvi?
Ovvero: Giobbe parla con Dio [9]
[10]
Cristianesimo quale
Avvento
La Chiesa in queste settimane celebra l’Avvento
e noi con lei. Se rammentiamo ciò che abbiamo appreso nell’infanzia circa
questo tempo e il suo significato, ricorderemo che ci fu detto che la corona di
Avvento con le sue candele ricorda i millenni (forse centinaia di millenni)
della storia umana prima di Gesù Cristo; che richiama alla mente nostra e della
Chiesa il tempo in cui un’umanità schiava attendeva la liberazione e ci
rammenta la tenebra di una storia di schiavitù, in cui solo lentamente si
accesero le luci della speranza, fino a che, da ultimo, Cristo, luce del mondo,
venne a liberarlo. Abbiamo appreso inoltre che quei millenni prima di Cristo
sono stati tempi del male a causa del peccato originale, mentre abbiamo
imparato a chiamare i millenni dopo la nascita [11] del Signore «anni salutis
reparatae», anni della restaurazione della salvezza. Infine rammenteremo che ci
è stato detto che in Avvento la Chiesa
non solo ricorda un passato che per l’umanità era tempo di schiavitù e
d’attesa, bensì che essa nell’Avvento guarda al di là di sé, alla schiera di
coloro per i quali è ancora sempre «Avvento», poiché attendono e vivono ancora
nell’oscurità della schiavitù.
Quando noi, uomini di questo secolo e con le
esperienze di questo secolo, consideriamo di nuovo quanto una volta abbiamo
preso, ci riesce difficile poterlo accettare pienamente. Non ci morirà sulle
labbra la parola degli anni della salvezza, quali devono essere quelli seguenti
la venuta di Cristo in contrapposizione, a quelli precedenti la sua nascita,
anzi non ci apparirà tragica ironia, se pensiamo a date come il 1914, 1918,
1933, 1939, 1945 – date che indicano il periodo delle guerre mondiali, in cui
milioni di uomini persero la vita nelle più orribili circostanze? date che
richiamano [12] alla mente cose orribili, di cui prima l’umanità tecnicamente
non sarebbe stata capace? Tra queste c’è anche la data che ci ricorda l’inizio
di un regime, che ha elevato a spaventosa perfezione l’omicidio di massa;
infine il ricordo vola a quell’anno in cui fu fatta esplodere su una città
popolosa la prima bomba atomica, nel cui abbagliante splendore è emersa una
nuova possibilità di tenebra per il mondo.
Se pensiamo
a questo, non sarà più tanto facile distinguere la storia in tempi del male e
in tempi della salvezza. Se poi volgiamo lo sguardo alle sciagure e alle
devastazioni che nel nostro secolo e nei secolo precedenti uomini cristiani
(cioè coloro che noi chiamiamo uomini «salvi») hanno portato nel mondo, non
saremo neppure più capaci di distinguere i popoli della terra in quelli che
vivono nella salvezza e in quelli che ne sono al di fuori. Onestamente non
potremo più portare a termine quel quadro a bianco e nero in cui la storia e la
carta geografica vogliono distinguere le zone della [13] salvezza da quelle
della non-salvezza. Anzi tutta la storia e tutta l’umanità ci appariranno come
una massa grigia, in cui si scorgono sempre di nuovo i lampi luminosi del bene
mai del tutto soffocato, in cui gli uomini tendono sempre daccapo a uno stato
migliore, in cui però seguono continue cadute negli orrori del male.
In tale ripensamento appare evidente però che
l’Avvento non è – come forse si poteva dire in tempi precedenti – un sacro rito
rappresentativo della liturgia, in cui questa ci fa ripercorrere le strade del
passato, mostrandoci ancora una volta chiaramente quale esso fu, affinché ora
possiamo godere la salvezza tanto più gioiosamente e beatamente. Dovremo anzi
confessare che l’Avvento non è solamente ricordo e commemorazione del passato,
ma nostro presente e nostra realtà: la
Chiesa non si limita a far qui una rappresentazione, bensì ci rimanda a ciò che
costituisce la realtà anche della
nostra esistenza cristiana. È con il significato del periodo d’Avvento nel[14]l’anno
liturgico che essa fa rivivere questa coscienza e ci obbliga ad assumere una
posizione di fronte a questa realtà di fatto, a riconoscere il gran numero di
coloro che non sono ancora salvi, numero che non solo in un qualche lontano
tempo gravò sul mondo e forse ancora in un qualche lontano luogo vi grava, ma
che è la realtà fra noi e nella Chiesa.
Mi sembra che non di rado corriamo un
grave pericolo; non vogliamo vedere; viviamo a luci spente, poiché temiamo che
la nostra fede non potrebbe sopportare la luce piena e abbagliante della
realtà. Così ce ne schermiamo e la escludiamo dalla coscienza per non
soccombere di fronte ad essa. Ma una fede che riconosce solo la metà della
realtà o, ancora peggio, non la riconosce affatto, è in fondo già una forma di
rifiuto della fede o almeno una forma molto grave di pusillanimità, che ha
paura che la fede sia inferiore alla realtà.
Essa non osa ammettere che la fede è la
forza che vince il mondo. Credere veramente signi[15]fica, al contrario,
guardare in faccia coraggiosamente e a cuore aperto tutta la realtà, anche se
ciò è contrario all’immagine che per un qualche motivo noi ci facciamo della
fede. Perciò fa parte dell’esistenza cristiana anche questo: che, sottraendoci
all’inquietudine del nostro buio interiore, osiamo parlare con Dio, come l’uomo
Giobbe. Naturalmente non crediamo di poter presentare a Dio solo la metà del
nostro essere, e dovergli risparmiare il resto, poiché potremmo spiacergli. No,
proprio davanti a Lui possiamo e dobbiamo deporre tutto il peso della nostra
esistenza in tutta verità. Dimentichiamo troppo spesso che nel libro di Giobbe
tramandatoci dalla Sacra Scrittura Dio, alla fine del dramma, dichiara Giobbe
giusto – lui che ha scagliato contro Dio le più mostruose accuse –, mentre
dichiara gli amici di Giobbe falsi, quegli amici che avevano difeso Dio e
avevano trovato a tutto una qualche bella rima e risposta.
Celebrare l’Avvento non significa altro che
parlare con Dio, come ha fat[16]to Giobbe. Significa considerare una volta
tanto tutta la realtà e il peso della nostra esistenza cristiana senza timore e
deporla al cospetto di Dio giudice e salvatore, anche quando noi, come Giobbe,
non abbiamo alcune risposta da dare e non ci resta che un’unica cosa: lasciare
a Dio stesso la risposta e dire a lui la nostra incapacità di trovarne una nel
nostro buio.
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